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05 giu
Pasquale Amato _ Storia _ Visualizzazioni: 96485

Pasquale Amato - PROFILO DELLA STORIA D’ITALIA NEL XX SECOLO (1900-2000) *

Pasquale Amato - PROFILO DELLA STORIA D’ITALIA NEL XX SECOLO  (1900-2000) *

* Testo rielaborato della Conferenza tenuta nel novembre del 2000 all'Avana (Cuba) nella "Casa de la Poesia" nell'ambito del programma della Settimana della Cultura Italiana, organizzata dall'Ambasciata d'Italia a Cuba, dalla "Sociedad Dante Alighieri de Cuba" e dal "Grupo de Italianistas Cubanos" coordinato dal Prof. Giampietro Schibotto. Pubblicato poi nella Rivista "Cuadernos de Italianística cubana", Año III No. 5, Número Especial "Cultura Italiana del Siglo XX", La Habana, mayo 2001.

 Sintetizzare ed esporre per grandi linee la storia di un intero secolo è già per sé un compito particolarmente difficile. Se poi si tratta del XX secolo e di uno Stato come l’Italia, che ha la tradizione di essere molto dinamico in qualsiasi sua attività e di essere in costante ebollizione nel campo della politica, è certamente un’impresa ancor più difficile.

Ho pensato di affrontare l’impresa adottando tre livelli diversi di narrazione. Innanzitutto ho tenuto sempre presente lo scenario internazionale perché non si può nella storia, ma in particolare nella storia del ‘900, trascurare questo aspetto. Ho pensato poi di collegarlo ad una storia nazionale narrata su due livelli differenti: quello della storia dei Governi, della storia del potere e delle conquiste e delle lotte per il potere; e l’altro della storia del popolo. In tutti gli Stati esistono questi due livelli ma in Italia la loro incidenza è stata sempre più profonda.

Tale maggiore incidenza è un effetto della sua storia. La storia di un Paese che, già dal punto di vista geografico, è collocato al centro del Mediterraneo e che è stato sede d’incontri e scontri tra tutti i popoli e flussi culturali che vi sono passati. Un Paese che è stato quindi al centro di tutti i movimenti di popolazioni tra Nord e Sud, Europa e Africa, Asia e Estremo Occidente.

Ne è scaturita un’articolata frammentazione della sua storia. Tant’è vero che quando vogliamo cercare di capirla dobbiamo tenere conto di un paese che assomma una serie di enormi differenze, dovute appunto al fatto di essere stato il Paese delle città- stato greche nel Sud e in buona parte della Sicilia  ( Palermo e Trapani) e nella Sardegna meridionale, delle città – stato etrusche della Toscana  e del Lazio, dei piccoli regni italici prima dell’espansione della città-Stato Roma; il Paese dei Comuni e delle Repubbliche marinare, delle Signorie e dei Principati; il Paese che nel Palio di Siena esprime tuttora le grandi rivalità tra gli stessi quartieri della città ma è soltanto il più conosciuto perché sono migliaia gli appuntamenti simili in tutto il territorio dalle Alpi alla Sicilia; il Paese che ha visto l’alternarsi sul suo territorio di tanti conquistatori attratti dal suo clima, dalla posizione strategica al centro del Mediterraneo  e dall’immenso patrimonio di cultura e di arti che s’è andato accumulando nelle differenti epoche storiche grazie alla straordinaria creatività alimentata dalle tante identità e da un forte individualismo.

L’Italia è insomma il Paese delle 100 città, delle 100 province, delle migliaia di campanili, l’unico dove Roma è al tempo stesso la capitale di uno Stato Nazione e la capitale di uno Stato universale religioso, come il Vaticano. E’ infine, proprio per questo intrecciarsi di ragioni diverse, un Paese dove lo Stato e i cittadini hanno vissuto spesso un rapporto abbastanza conflittuale, in cui i cittadini ( proprio per effetto dell’alternarsi di governi e denominazioni differenti) hanno acquisito l’abitudine di una forte diffidenza nei confronti dei maggiori poteri istituzionali costituito connessa ad una raffinata capacità di adattamento formale (il minimo indispensabile per non essere fuori dalla legge) e ad un margine molto elevato di distaccata autonomia mentale.

Grazie a tali atteggiamenti e comportamenti si sono adattati a tutti i regimi senza mai rinunciare a un’ampia autonomia di valutazione e di giudizio nei confronti dei veri regimi e delle relative legislazioni.

 

  1. LA BELLE EPOQUE (1900/1914)

 L’alba del Novecento rappresentò per l’Italia la chiusura traumatica (con l’assassinio a Monza del re Umberto I di Savoia da parte dell’anarchico Gaetano Bresci) di un decennio di crisi politica e sociale dovuta alla reazione repressiva dei Governi allo sviluppo del movimento socialista  nelle periferie industriali e nelle campagne e l’apertura di una nuova fase in cui il giovane re Vittorio Emanuele III di Savoia ( soprattutto per sottolineare la propria diversità dall’odiato padre) chiamò al governo Giuseppe Zanardelli, il più colto e illuminato esponente liberale, il quale nel 1889 era stato autore del Primo Codice Penale che aveva abolito la pena di morte.

  Zanardelli  nominò suo ministro degli Interni  Giovanni Giolitti, ex-alto burocrate dello Stato che aveva vissuto già una prima esperienza di presidente del Consiglio nel 1891 ma con poca fortuna. La sua politica di equidistanza tra imprenditori e lavoratori nei conflitti di lavoro era stata ritenuta debole nell’imperante clima di reazione conservatrice che aveva pervaso la corte e la maggioranza del gruppo dirigente liberale con leaders come Francesco Crispi, Di Rudinì e Pelloux. Quest’ultimo aveva superato ogni limite quando nel 1898 aveva proposto una legge speciale liberticida ed aveva proposto al Re Umberto I ( che aveva accettato) la medaglia d’oro al valor militare per il generale Bava Beccaris per aver usato a Milano i cannoni contro la folla che chiedeva il pane.

Nello scenario di distensione sociale che il nuovo Governo instaurò anche l’Italia  visse la cosiddetta età della  “belle epoque” , chiamata così perché si pensava che le guerre fossero ormai concluse, che il mondo fosse avviato ad un progresso continuo ed irreversibile, che gli equilibri politici, nazionali e internazionali, fossero ormai garantiti.  Si pensava comunque ad un mondo migliore e più felice per tutti anche quando la realtà quotidiana si presentava nella maniera peggiore, come per esempio per le popolazioni del Sud dell’Italia.

Il Governo – col chiaro intento di allentare la tensione sociale soprattutto nelle campagne del Mezzogiorno – incoraggio la valvola di sfogo dell’emigrazione, varando finanche una legge di sostegno nel 1906. La grande ondata di emigrazione del primo decennio del secolo si presentò come un grande viaggio di speranza verso le Americhe, verso il nuovo Eldorado, e fu certamente uno degli aspetti che caratterizzò il periodo che in Italia è stato chiamato il periodo dell’età di Giolitti.

Giolitti fu il Presidente del Consiglio che, pur in mezzo a tante crisi, riuscì ad essere dominante dal 1901 (anno in cui affiancò come Ministro degli Interni del Governo guidato da Giuseppe Zanardelli, assumendo la presidenza nel 1903 dopo il suo ritiro) al 1914 e fu protagonista di una fase di grande sviluppo del Paese, sebbene inficiata da un aumento degli squilibri territoriali. Uno sviluppo che portò certamente l’Italia dentro il contesto mondiale delle nazioni industrializzate, ma solo per una sua parte, solo per alcune regioni del Nord, mentre le altre aree del Paese, non soltanto le regioni del Sud ma anche quelle del Centro e del Nord-Est, restarono tagliate fuori dal progresso economico e furono altresì le regioni che fornirono il numero più alto di milioni di emigrati.

Le regioni meridionali collaborarono infine indirettamente ad arricchire le regioni più progredite per due ragioni principali: furono si beneficiarie della politica di grandi opere pubbliche e di leggi speciali lanciata nel Sud da Giolitti ma specie per i subappalti e per la gestione clientelare dei deputati legati a Giolitti, mentre i megappalti furono invece appannaggio esclusivo delle grandi  imprese cresciute in Lombardia e Piemonte all’ombra della protezione dei governi  dei primi quarant’anni  di storia unitaria; le rimesse degli emigranti contribuirono sia a migliorare le capacità di acquisito dei beni di consumo prodotti dalle Aziende del Triangolo che a fornire – tramite il drenaggio dei risparmi da parte del sistema bancario – denaro fresco per nuovi investimenti nelle medesime aree più industrializzate del Paese.

      

  1. PRIMA GUERRA MONDIALE E FASCISMO (1915-1943)

Le speranze e le illusioni della “belle epoque” andarono in frantumi con lo scoppio nel 1914 della Prima Guerra Mondiale. Ma già a partire dal 1910 gli equilibri internazionali, specie quelli tra le grandi potenze europee, si erano andati deteriorando inesorabilmente attraverso le aree più instabili: la polveriera dei Balcani e il Medioriente  in connessione col processo di dissolvimento del claudicante Impero Ottomano.

L’Italia era gravata da un problema: da una parte era obbligata dalla Triplice Alleanza a stare con l’Austria e con la Germania; dall’altra aveva la pressione della popolazione, specie di Trento e di Trieste, che voleva il ritorno all’Italia delle due province sostenuta sia dall’attivismo Partito Nazionalista che dagli interventisti democratici d’ispirazione mazziniana  (Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti Bianco e altri ) che sognavano l’Europa delle libera nazioni contro gli Imperi multinazionali Asburgico e Ottomano e in tale ambito il  completamento del Risorgimento italiano.

Il Governo (superando il neutralismo razionale di Giolitti, quello umanitario dei cattolici e quello antimperialista e internazionalista dei socialisti) finì col prendere la decisione di stare dalla parte di chi voleva che fosse completato il percorso del Risorgimento nazionale. Pertanto entrò in guerra dall’altra parte della barricata, cioè con l’Inghilterra e con la Francia. La guerra fu forse l’ultima in cui contò il valore dei soldati; c’erano, si, armi moderne, c’erano armi che fino ad allora non erano mai state usate, ma erano ancora agli inizi. Nella guerra del ’14-18, contarono moltissimo i valori militari del coraggio e dell’eroismo.

Tuttavia in Italia si verificò un altro drammatico caso di dissidio e di spaccatura profonda tra governo e popolo, quando nel novembre 1917 ci fu lo sfondamento del Fronte italiano a Caporetto da parte degli austriaci. Il governo liberale di allora promise, emanando il Decreto Visocchi, che avrebbe dato la terra ai contadini meridionali, le terre incolte dei latifondi, delle grandi proprietà terriere. E i contadini del Sud – di fronte all’ennesima prospettiva di realizzare il loro antico sogno del “pezzo di terra” si impegnarono a fondo a difendere l’indipendenza facendosi massacrare sul fronte del fiume Piave (a pochi chilometri da Venezia) e riuscendo a fermare l’avanzata di austriaci e tedeschi.

Dopo la guerra quelle promesse non vennero mantenute, tradendo per l’ennesima volta la fiducia dei contadini meridionali. Fu una delle cause maggiori della crisi che attanagliò l’Italia nell’immediato dopoguerra con l’esplosione di una spontanea occupazione delle terre incolte dei latifondi e relativi interventi repressivi di polizia ed esercito. Un’ altra ragione fu quella della guerra, della lotta che si aprì anche in Italia sul  modo come interpretare la vittoria  della prima guerra mondiale.

 Ciò rifletteva il conflitto all’interno della Conferenza di Pace di Parigi tra due posizioni: da una parte quella del Presidente americano Woodrow  Wilson che, con i suoi 14 punti e la proposta d’istituire la Società delle Nazioni, proponeva una pace giusta, una pace in cui tutte le realtà ed esigenze nazionali - sia dei vincitori che dei vinti - fossero rispettate; e la linea invece del  Primo Ministro francese Clemenceau, il quale sosteneva, di fatto, una pace di vendetta, una pace in cui vincitori avrebbero dovuto punire (schiacciandone l’economia, umiliandoli con tasse di guerra e mutilandone i territori) gli Stati che avevano perso la guerra.

Prevalse purtroppo questa seconda linea,che alimentò odi, rancori e diffusi sentimenti di rivincita. Inoltre si sviluppò una competizione tra i vincitori  sull’accaparramento delle spoglie dei vinti. I nazionalisti italiani accusarono il governo liberale di aver preteso e ottenuto molto meno di altri Paesi Vincitori lanciando l’efficace slogan di “vittoria mutilata”, fornendo a Benito Mussolini uno degli argomenti più convincenti su cui puntare per conquistare il potere.

 Non fu questo l’unico argomento utilizzato dal leader del fascismo che giocò diverse carte in quella convulsa fase storica in cui l’Italia costituì ancora una volta una specie di laboratorio politico. La  crisi investì tutti i Paesi ma in Italia si risolse nella maniera più violenta, cioè si risolse con l’affermazione della dittatura fascista.

Su cosa puntò Benito Mussolini? Puntò soprattutto sulla paura del ’17, sulla paura della Rivoluzione Russa, sulla possibilità che si potesse realizzare anche in Italia; quindi fece passare dalla propria parte grandi proprietari terrieri  prima, i grandi industriali dopo e infine la media borghesia, la quale aveva avuto un miglioramento dei suoi livelli di vita durante il periodo della “belle epoque” e non voleva certamente lasciarseli sfuggire.

Mussolini si presentò come l’uomo forte, che risolveva qualsiasi problema e allontanava i timori di tutte queste parti di popolazione rispetto alla paura di un ’17 in Italia. Il fascismo si caratterizzò come un regime dittatoriale in cui vennero eliminati tutti i partiti. Venne instaurato un regime a Partito unico nettamente orientato a destra, in difesa degli interessi dei ceti più abbienti e dei ceti medi con ampie fasce di consensi provenienti dai settori più disparati: i ceti popolari delle città , gli ex- combattenti, i contadini nullatenenti delusi dall’imbroglio del decreto Visocchi assumendone demagogicamente le difese, i piccoli e medi proprietari delle campagne, i nazionalisti, movimenti culturali (futuristi e dannunziani) e sociali (sindacalisti rivoluzionari), la maggior parte del vecchio gruppo dirigente liberale e l’appoggio del Vaticano dopo l’accordo del 1924 in cui furono gettate le basi per i Patti Lateranensi che vennero poi firmati nel 1929.

Quanto però questa affermazione del Partito unico fosse in un certo senso ammorbidita dall’atteggiamento del popolo italiano, da sempre abituato a un approccio pragmatico e distaccato nei confronti del potere, si vide più chiaramente quando Hitler assunse il potere in Germania.

Hitler si affermò con metodi simili a quelli di Mussolini, con in più lo sfruttamento del rancore dei tedeschi. Il leader nazista puntò difatti moltissimo sul risentimento profondo dei tedeschi per essere stati umiliati durante la Conferenza di Pace di Parigi, facendone l’arma più incisiva e corrosiva della sua ascesa al potere. Però la sua politica, il suo modo d’impostare l’organizzazione dello Stato  furono ispirati all’esperienza fascista.

Il regime nazista si sviluppò tuttavia come un sistema totalitario molto più rigido e fanatico di quello italiano. Per quali motivi? Germania e Italia sono due Paesi con storie diverse e con identità differenti. Pertanto, siccome ogni paese è figlio della sua storia, anche lo stesso modello di sistema politico non avrebbe potuto avere un medesimo sviluppo ed uguali esiti. Per supportare tale tesi potrei fare molti esempi. Ne faccio uno solo che è particolarmente quello forse più importante e significativo.

 Quali furono i rispettivi atteggiamenti del popolo tedesco e quello del popolo italiano nei confronti delle leggi razziali? Le leggi  razziali furono emanate in Germania con l’obiettivo fondamentale di isolare nel Paese, e poi di sterminare, gli ebrei e tutti gli altri diversi, tra cui anche zingari, tutti coloro che non facevano parte della cosiddetta razza ariana tedesca. Hitler esercitò pressioni su Mussolini  sino a convincerlo ad applicare queste leggi anche in Italia, nonostante le resistenze interne allo stesso suo partito.

  Quali furono i rispettivi comportamenti? In Germania la maggior parte della popolazione accolse questa legge e l’applicò alla lettera; chi aveva un vicino, chi aveva un parente, un familiare, un amico ebreo, fino al giorno prima amico, lo denunciò – così come prevedeva la legge – alle autorità e lo fece arrestare pur sapendo che poi sarebbe andato nei campi di concentramento, nei lager , e che il suo destino era segnato.

 In Italia successe esattamente il contrario. Quasi tutti i cittadini, compresi preti e suore, e finanche parecchi dirigenti del Partito fascista, nascosero, aiutarono, protessero il parente ebreo, il vicino di casa ebreo, l’amico ebreo. E ciò è stato riconosciuto dagli  organismi internazionali anche dopo la seconda guerra mondiale;  le stesse Associazioni ebraiche riconobbero all’Italia il più alto livello di partecipazione all’azione al far di tutto per salvare il maggior numero di ebrei.

 E poi c’è un altro esempio, forse ancora più importante per far capire la differenza di fondo tra i due popoli. Ci furono in Germania tanti lager, tanti campi di  concentramento, furono assassinate oltre 6 milione di persone appartenenti in maggioranza alla razza ebraica, e poi altri appartenenti comunque a minoranze etniche e religiose. In Italia ci fu un Lager, un grande campo di concentramento in Calabria, in una zona isolata di montagna: Ferramonti di Tarsia. Venne mandato a comandarlo un maresciallo di polizia, Gaetano Marrari di Reggio Calabria, il quale appena vide arrivare questi strani detenuti si rese conto subito che non erano né criminali né delinquenti. Erano delle persone per bene che “chi aveva perso il ben dell’intelletto”, come diceva lui, aveva deportato in quei campi per la sola colpa di appartenere ad una razza diversa o ad una religione differente, non per altri motivi, né politici, né per aver compiuto qualche azione illegale. E decise autonomamente di trattarli  come “signori e signore”.

 Successe così che mentre nei lager tedeschi ci furono tanti forni, e tanti fumi si alzarono nei cieli di Germania, Polonia, Cecoslovacchia per dissolvere nel vento milioni di corpi di deportati, a Ferramonti ci fu un solo forno, il forno che il maresciallo fece costruire agli stessi ebrei perché potessero cuocervi il loro azzimo. Negli  altri campi vennero eliminati quasi un milione di bambini e anziani  perché erano bocche da sfamare e non potevano essere sfruttati nel lavoro da schiavi. Nel campo di Ferramonti nessun bambino venne assassinato, anzi il maresciallo, comandante del campo, ogni settimana portava i bambini al paese vicino di Tarsia per offrire loro il gelato.

  Per decisione autonoma di un uomo che era comunque un graduato ma si regolò facendo prevalere ciò che gli dettava la propria coscienza sugli ordini ricevuti e ritenuti iniqui (al contrario di quanto fecero tutti i comandanti tedeschi dei lager) a Ferramonti non fu bruciato nessuno, non fu assassinato nessuno e le morti furono soltanto per malattie.

 Vennero gli  anni della guerra, gli anni difficili dal ’40 al ’43, di una guerra che è stata la prima in cui hanno contato più l’economia e l’industria. E’ stata una guerra in cui chi era più potente economicamente, chi aveva un più forte apparato industriale è riuscito a vincere. Un Paese come l’Italia – che certamente era entrato nel campo dei Paesi industriali, ma era privo di materie prime e con un tasso di sviluppo sbilanciato verso il Triangolo Industriale Milano – Torino – Genova mentre il resto del Paese ancora in buona parte restava molto inferiore ad altri Paesi europei  - certamente svolse un ruolo di secondo piano, com’era logica, come fu logico per molti altri.

Infatti la guerra venne di fatto decisa dall’ingresso in campo degli Stati Uniti  che riversarono sui vari fronti di guerra tutto ciò che il loro apparato industriale poteva produrre in aerei, in carri armati e in tutte le forme possibili di bombardamento civile; cioè la forza economica degli Stati Uniti divento determinante, affiancato oltretutto dal primato nella propaganda moderna, con i mezzi moderni; in quel momento il mezzo fondamentale era il cinema, il cinema venne usato in maniera notevole per poter imporre la supremazia  di una parte sugli altri. In più vi fu alla fine la bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, che decise definitivamente la guerra, non certamente per un fatto di umanità.

 

  1. DALLA CADUTA DEL FASCISMO AGLI ANNI OTTANTA (1943-1989)

 L’Italia era ancora la piccola Italia. Subì gli effetti della guerra con una sconfitta che fu resa ancora più amara e drammatica da un armistizio gestito male dal proprio re, Vittorio Emanuele III e dal suo Primo Ministro Pietro Badoglio. Questi firmò l’armistizio con gli americani e gli inglesi e poi scappò da Roma con tutto il governo e i generali, lasciando ancora una volta gli italiani  piedi, costretti a doversi arrangiare, costretti  a doversela cavare da sé, a doversi adattare alla situazione, alle circostanze.

L’Italia visse il periodo che va dal ’43 al ’48 un vero e proprio suo periodo “especial”, il periodo in cui la fantasia, la creatività, la capacità di adattamento a tutte le circostanze e a tutte le situazioni furono fondamentali per riuscire a vivere e a sopravvivere. Basta vedere i film del neorealismo per rendersene conto.

   Dal ’48 al ’60 il discorso divenne diverso. Ci fu innanzitutto l’intervento americano del piano Marshall che aiutò tutti  i Paesi dell’Occidente, perché nel frattempo era scattata la Guerra fredda. Era scattata cioè la divisione del mondo in due parti. Da una parte il Paese- guida erano gli Stati Uniti con Washington, dall’altra era l’Unione Sovietica. L’Europa fu divisa nettamente in due parti.

 L’Italia venne a trovarsi  dalla parte degli Stati Uniti e dell’ Occidente.

Altri Paesi europei vennero sottoposti al controllo dell’Armata Rossa e gli vennero imposti dei regimi simili a quello di Mosca. Dico questo non per caso, perché spesso e volentieri si fa confusione sulle nascite dei vari governi e stati comunisti; non si distingue mai tra chi ha fatto la rivoluzione direttamente sulle proprie forze, con le proprie capacità – e questo è il caso di Cuba – da chi invece ha subito un colpo di stato interno dovuto alla presenza delle truppe sovietiche; quindi sono stati momenti  diversi, modi diversi anche di aderire ad un sistema politico: mentre da una parte c’è stata una scelta, dall’altra c’è stata un’imposizione.

  Comunque in quegli anni, dal ’47 al ’60, l’Italia uscì gradualmente dalla disastrosa crisi del secondo dopoguerra. Le capacità di lavoro e d’inventiva del popolo si rivelarono fondamentali. Gli aiuti statunitensi furono importanti  ma il Paese riuscì a utilizzarli nei modi migliori possibili. Per ottenere quegli aiuti fu pagato comunque un prezzo salato: il Primo Ministro democristiano Alcide De Gasperi  ritornò nel giugno del ’47 da un viaggio ufficiale negli Stati Uniti  e aprì immediatamente una crisi di governo per espellere dall’esecutivo il Partito Socialista e il Partito Comunista. Fu il segnale del clima di tensione della Guerra Fredda che aveva coinvolto il Paese in maniera molto più traumatica degli altri Paesi europei perché in Italia c’era il più grande Partito Comunista dell’Occidente.

   Dal ’60 al ’70, proprio per effetto dell’uscita del periodo “especial”, l’Italia  conobbe un grande boom economico che la fece entrare dentro il mondo dei Paesi ricchi, anche lasciando profondi squilibri al suo interno. Molte parti dell’Italia meridionale e qualche parte dell’Italia centrale rimasero ancora tagliate fuori nonostante la politica di intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno istituita nel 1950. Mentre l’intero Nord visse una fase di eccezionale sviluppo ed il Veneto  e il Friuli – che sino ad allora erano stati il Sud del Nord – avviarono il cammino che li avrebbe portati al livello delle zone più ricche. Quindi cambiò il quadro complessivo, lo scenario complessivo del Paese.

 Dopo la rivolta giovanile mondiale del ’68 entrò in crisi il sistema mondiale che aveva fino ad allora governato il mondo. E nel periodo ‘76/89 la crisi divenne irreversibile, finendo con l’essere un elemento di ulteriore instabilità nel nostro Paese con l’esplosione del terrorismo politico e con affermazioni di organizzazioni delinquenziali mafiose che hanno fatto anche delle azioni di forza nei confronti di chi, a livello dello Stato, li combatteva. Il “caso Moro” e le violente stragi  dei giudici  Giovanni Falcone e Claudio Borsellino e delle loro scorte rappresentarono il massimo momento di crisi ma nel contempo segnarono anche una presa di coscienza collettiva che portò ad un isolamento di questi fenomeni consentendo una riscossa dello Stato nei loro confronti.

 Quindi l’Italia – grazie al fatto di essere un Paese intrinsecamente debole nel rapporto tra Stato e cittadino – subì anche in quel periodo gli effetti della crisi  del sistema sovietico , che sarebbe crollato nel  1989 nonostante l’illusorio tentativo di Gorbacev di riformarlo attraverso una graduale liberalizzazione guidata dallo stesso Partito dominante. 

 

  1. IL PROCESSO DI UNIFICAZIONE DELL’EUROPA (1957 – 2000)

Nel frattempo entrò in una fase di forte accelerazione il processo di unificazione europea, partito dalla Conferenza di Messina del ’55 e dai Trattati di Roma del ’57.

 Si tratta di una specie di miracolo della storia perché qualsiasi unificazione tra Stati diversi che ci sia stata nella storia è stata sempre l’effetto dell’occupazione di uno Stato nei confronti di altri. Le stesse unificazioni dell’Italia e della Germania  si realizzarono tramite un’azione militare rispettivamente del Regno piemontese dei Savoia e del Regno prussiano degli Hohenzollern.

 L’Europa aveva vissuto millenni di guerre, nell’età moderna aveva avuto periodi di guerre lunghissime e sanguinose e in età contemporanea aveva conosciuto quindici anni di guerre nella lunga contesa tra l’idea di Napoleone di sottometterla tutta al suo dominio intriso delle innovazioni epocali della Rivoluzione francese. Dopo la guerra franco – prussiana del 1870, con le conseguenti caduta di Napoleone III dopo la sconfitta di Sedan e la nascita dell’ Impero Germanico s’era diffusa l’illusione che fosse finita la serie interminabile di guerre tra gli Stati Nazionali, le monarchie e gli Imperi.

Purtroppo la rottura degli equilibri faticosamente tessuti dal Cancelliere tedesco Bismark dal 1870 al 1890 consumatasi in pochi anni soprattutto per responsabilità dei successori del Cancelliere aveva provocato la prima grande guerra mondiale, seguita dalla disastrosa Pace di Parigi che aveva gettato le basi per il secondo conflitto mondiale.

Dopo aver provocato tanti disastri come effetto delle rivalità tra i vari Stati alcuni politici europei illuminati avevano deciso – sulla spinta di un gruppo di intellettuali tra cui gli italiani Altiero Spinelli e Eugenio Colorni – di dar vita al sogno di creare per via pacifica un’Europa unita che rompesse con il suo passato. era stato avviato così – col francese Jean Monnet come grande ispiratore e mediatore – un processo di unificazione necessariamente lento e graduale, perché ogni giorno, ogni anno, ciascuno dei Paesi (dai Sei fondatori – Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo – ai quindici attuali) ha dovuto dal ’57 ad oggi rinunciare ad una parte del suo orgoglio nazionale per diventare più europeo.

 In questo processo il Paese che è stato sinora il più aperto, il Paese che più ha dato e sta dando un contributo all’unificazione europea è l’Italia. Proprio perché è quello meno nazionalista e di conseguenza il più disponibile e aperto ad una dimensione continentale. E’ stato molto più faticoso e tormentato qualsiasi passo in avanti fatto da Paesi come l’Inghilterra, la Francia, la stessa Germania, fortemente intrisi di quel sentimento d’ appartenenza esasperato che ha provocato tante guerre nella storia d’Europa. Pensate al caso dell’Euro, la moneta unica che dal gennaio 2002 sarà adottata in 11 Paesi e costituirà una tappa fondamentale della costruzione europea.

L’Inghilterra non v’è entrate non avendo voluto saperne di rinunciare alla sua sterlina, la Francia  e la Germania sono entrate con forti resistenze interne all’idea di usare una moneta che non saranno il franco e il marco. Per gli italiani il problema è stato meno complicato, essendo molto più disponibili da questo punto di vista.

 La moneta unica europea sta soffrendo comunque un costante attacco da parte del dollaro. Perché sta subendo questo attacco? Perché il dollaro ha un vantaggio: quello che la moneta europea è ancora simbolica, non è circolante e quindi si trova in uno stato di obiettiva debolezza. Il dollaro intende far arrivare l’Euro all’appuntamento storico del gennaio 2002 il più debole possibile; perché è evidente che la moneta europea costituisce un pericolo in prospettiva per il dominio mondiale del dollaro. Entrerà in circolazione in un intero continente dove ci sono risorse umane e finanziarie, competenze tecniche e informatiche, capacità e imprenditorialità; e poi centinaia di milioni di persone utilizzeranno questa moneta che obiettivamente diventa un pericolo sui mercati mondiali, senza considerare un altro aspetto che sicuramente gli esperti del dollaro hanno considerato.

 Cosa faranno i Paesi dell’America Latina quando la Spagna userà l’Euro? Continueranno ad adottare il dollaro statunitense oppure decideranno di adottare l’Euro? Cuba l’aveva già annunciato. Ma di recente è pervenuta alla stessa decisione anche l’Argentina. Sicuramente pesa su tali decisioni l’aspetto dei rapporti commerciali con la Spagna, con l’Italia e con altri Paesi europei. Ma se all’aspetto economico affianchiamo comunanze di cultura e di lingua oppure di somiglianze culturali la possibilità molto profonda allora la prospettiva di utilizzazione dell’Euro acquista maggiore rilevanza.

 

  1. LA GLOBALIZZAZIONE E LA RESTAURAZIONE NEO-LIBERISTA (1989-2000)

 E siamo arrivati alla fase finale del secolo, al periodo del dopo ’89, al crollo del sistema sovietico con la caduta dei regimi comunisti satelliti dell’Europa dell’Est e la crisi d’identità e di fiducia anche degli stessi partiti socialisti e socialdemocratici. Ma le conseguenze di quel crollo sono state ben più ampie e gravi.

La prima di esse è stata immediatamente percepita perché elementare: nello scenario internazionale è rimasta una sola superpotenza, gli Stati Uniti, e non c’è più l’altra grande superpotenza (l’Unione Sovietica) che aveva frenato e condizionato le tendenze imperialistiche statunitensi nel secondo dopoguerra. Ciò ha generato in Stati ex- alleati dell’Unione Sovietica crisi economiche e sociali come quella che ha investito Cuba nel cosiddetto “ Periodo Especial”.

L’isola costituiva e costituisce una vera e propria spina nel fianco del gigante nordamericano, particolarmente sofferta perché essa fa parte di quell’America Latina considerata da sempre proprietà privilegiata ed esclusiva degli USA. Non è un caso che essi abbiano difatti mantenuto il Bloqueo sebbene non vi fosse alcun rischio né militare né di altro genere ma per due motivi essenziali: il primo di natura psicologica, cioè il rifiuto ad accettare la presenza ai propri confini di uno Stato totalmente indipendente da essi nell’America Latina, che ha vinto altresì l’ennesima sfida dimostrando la forza interiore di una Rivoluzione che è stata autoctona ed ha rappresentato il completamento (nei confronti della colonizzazione economica degli USA) del Risorgimento iniziato nell’800 da José Martì contro la colonizzazione spagnola; il secondo di politica interna, per non perdere l’appoggio elettorale della potente comunità dei cubani di Miami e delle loro ricche e potenti organizzazioni (Gore ha perso le elezioni proprio nei quartieri cubani di Miami dove sono stati organizzati i brogli contro di lui per vendicarsi della liberazione e della riconsegna al padre da parte di Clinton di Elian).

 La seconda conseguenza, molto meno percepibile perché più sottile e raffinata e oltretutto sorretta da una grande campagna mondiale di persuasione operata dai grandi mezzi d’informazione (grandi giornali, reti televisive, nuova rete Internet), è stato il cambiamento di atteggiamento delle più potenti concentrazioni di potere economico (società multinazionali) che hanno acquisito la sicurezza di chi non si sente più minacciato dal pericolo di un avversario molto potente (come appunto era stata l’ex – Unione Sovietica.

In pratica è avvenuto un fenomeno molto simile a quello verificatosi nel Congresso di  Vienna del 1814/15. Allora i monarchi di tutta l’ Europa ed i loro ministri uscirono dall’incubo in cui erano precipitati nel 1789 e in particolare quando le imprese militare del plebeo Napoleone Bonaparte (usurpatore di un titolo imperiale, essendo figlio di un semplice piccolo impiegato della Corsica) erano seguite da intellettuali e funzionari che avevano scardinato vecchi privilegi per instaurare codici e leggi che per il solo fatto di avere come destinatari cittadini con pari diritti erano risultate sconvolgenti per le loro menti  e scandalosamente offensive del loro status.

Liberatisi dal pericolo incombente di Napoleone, che li aveva alla fine costretti a fare appello ai loro popoli e a sostituire i mercenari stranieri con truppe di leva per poterlo sconfiggere a Lipsia e a Waterloo, i principi europei ritrovarono il gusto delle feste e si convinsero di non avere più impedimenti  esaltandosi nella restaurazione dell’Ancien Regime e illudendosi che le lancette della storia potessero ormai tornare indietro senza alcun problema. Già nel 1820 scoppiarono moti liberali e Simon Bolivar guidò la liberazione di buona parte dell’America Latina; seguì nel 1825 la Guerra d’indipendenza dei Greci dall’Impero Ottomano; nel 1830 scoppiò in Francia la Rivoluzione di luglio, da cui scaturì Luigi Filippo d’Orleans Re dei Francesi e non più “di Francia”.  Moti e rivoluzioni scoppiarono un po’ ovunque sino all’esplosione del ’48 europeo, che segnò la fine dell’illusione della Restaurazione e l’affermazione definitiva degli ideali liberaldemocratici.

Dopo il crollo sovietico del 1989 i capitalisti di tutto il mondo hanno cambiato atteggiamento entrando in una fase di euforia e di esaltazione della propria invincibilità, convincendosi che ormai la paura del 1917 era inesorabilmente sotterrata. Hanno quindi dato vita alla Restaurazione del neoliberismo, attaccando decisamente e senza più remore tutto ciò che le era stato conquistato in due secoli dai movimenti e partiti socialisti: lo Stato Sociale, fondato sulla politica di riequilibrio economico e sociale e sulla gestione pubblica di servizi essenziali per garantire la parità dei diritti a tutti i cittadini, specie ai più svantaggiati e poveri (salute, istruzione, previdenza e pensioni, trasporti e così via). Hanno lanciato così una robusta campagna mondiale di persuasione evidenziando al massimo le disfunzioni di tutto ciò che era pubblico e facendo passare la certezza che tutto ciò che è pubblico è cattivo e peggiore e tutto ciò che è privato è buono e migliore, che il pubblico è spreco e inefficienza e che il privato, fondato sul profitto, è oculato e efficiente.

Hanno pensato altresì di essere più liberi nell’applicare le loro idee, affermando la supremazia dell’economia sulla politica. In buona parte degli Stati è avvenuta una crisi generale del primato della politica. La politica non ha elaborato più, a livello nazionale, alcuna linea, ma è stata sempre più assoggettata alle decisioni di organismi internazionali: la Banca Mondiale, l’FMI Fondo Monetario Internazionale, l’OMC Organizzazione Mondiale per il Commercio, l’OCSE. Questi organismi si dichiarano neutrali, perché i loro dirigenti sono tutti economisti,tecnocrati nominati dai governi su indicazione delle Banche Nazionali, ufficialmente senza alcuna collocazione politica dal punto di vista dell’appartenenza a partiti. Ciò non significa che siano neutrali dal punto di vista politico, perché finiscono con l’essere la “longa manus”, la mano delle grandi multinazionali.

Come ha evidenziato il grande poeta uruguaiano Eduardo Galeano “il mondo è oggi governato da un super governo formato da “un pugno di pirati”,  eletti da nessuna elezione. Essi  decidono delle sorti  dell’umanità e le dettano il codice morale. Al posto dell’uncino hanno un computer al pugno, e sulla spalla un tecnocrate invece del pappagallo. Dominano i sette mari dell’alta finanza e del commercio  internazionale  dove navigano quelli che speculano e affogano quelli che producono. Da lì distribuiscono la fame e l’indigestione su scala mondiale, manipolano i comandanti e sorvegliano i comandati”.

Si tratta di un’involuzione grave, perché la politica è fondamentale nel suo ruolo in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi  momento della storia.

Come sosteneva Aristotele “la politica è la più alta delle scienze”, è quella che deve basarsi sulla  conoscenza di tutte realtà e di tutte le situazioni e deve mediare tra i vari gruppi che spingono  per i loro interessi particolari all’interno di uno Stato, all’interno di una realtà organizzata , di una comunità.

La rinuncia della politica a quel primato, che dovrebbe essere un dovere più che un diritto,  ha consentito all’economia di svolgere un ruolo politico di dominio, un ruolo politico per cui noi leggiamo sui nostri giornali ogni  come ci ha giudicato il FMI, quali tagli di spese sociali  ( sanità, istruzioni) hanno deciso l’FMI e la Banca Mondiale; le misure punitiva (come la perdita degli appoggi di BM, FMI, OMC) che saranno assunte se non saranno tagliate abbastanza le spese per garantire i più deboli e i più poveri.

Quanto questo supergoverno conti è un problema ormai evidente a tutti, a tal punto che alcuni degli ultimi interventi delle Nazioni Unite in crisi mondiali sono stati determinati da pressioni di queste grandi multinazionali.

Pensate che soltanto 20 di queste multinazionali controllano l’80 per cento del mercato agro-alimentare mondiale. E possono decidere in un giorno se il Senegal se ne va  giù perché abbassano il prezzo nel mercato delle arachidi, oppure se deve essere salvato cercando di imporre un prezzo che per il Senegal può essere positivo.

  In questo quadro cosa è successo a livello mondiale? Si sono affermati tipi di partiti che prima non esistevano, partiti basati sull’appartenenza ad una razza, ad una etnia, ad una religione ( i cosiddetti  partiti fondamentalisti).

 Si sono affermate situazioni diverse in Paesi che certamente non avevano questi problemi, come per esempio l’Italia; l’Italia anche in questo caso è diventato laboratorio politico, per cui vi è nato il primo partito localista europeo, la Lega Nord di Umberto Bossi; partito localista nel senso che, non potendo fare riferimento ad un fattore religioso etnico, si riferisce all’aspetto economico: “ Noi siamo più ricchi delle altre parti del Paese; e intendiamo utilizzare la nostra ricchezza solo per noi stessi. Gli altri è meglio che ne stiano fuori e non vogliamo essere coinvolti nell’aiutarli”. Un vero trionfo dell’egoismo dei più ricchi su i più poveri. Si tratta di un atteggiamento che  purtroppo si è diffuso anche in altri Paesi europei, come in Belgio con il partito fiammingo.

   Nel 1994  che il laboratorio politico italiano ha prodotto un altro tipo nuovo di Partito: quello di Silvio Berlusconi. Cos’è questo Partito?  E’ un partito- azienda. In che senso possiamo chiamarlo partito- azienda? E’ un partito che ha trovato un vuoto della posizione politica  dei partiti tradizionali ( dopo la tempesta di tangentopoli che ha portato alla disgregazione dei due maggiori partiti di governo la DC e il PSI ) ed ha occupato questo vuoto con una impostazione dell’organizzazione del partito che riproduce esattamente l’azienda privata.

C’è al vertice un capo, ci sono poi i rappresentanti, gli agenti di rappresentanza locali tutti nominati dal centro.  Il capo provvede a tutte le esigenze  dal punto di vista economico, traccia col suo brain- trust le linee programmatiche, cura la preparazione degli agenti locali attraverso corsi, masters e seminari di formazione, indica le forme d’organizzazione e in più esercita un importante influenza sull’opinione pubblica tramite l’uso di alcune grandi centrali della comunicazione come reti televisive e giornali di sua proprietà. Proprio grazie a queste caratteristiche così anomale – pericolose per l’accentramento del potere economico e del potere politico nelle mani della stessa persona – il partito di “Forza Italia” ha dapprima conquistato il posto di primo partito italiano e poi – il 13 maggio 2001 – ha trascinato al successo la coalizione di centro-destra conquistando il governo del Paese.

 Lo scenario di questi ultimi 10 anni ci può fare pensare che tutto è ormai deciso, che la globalizzazione dominata dalle idee neoliberiste imposte dalle società multinazionali sia ormai irrefrenabile e non abbia nessuno che lo può fermare. Invece negli ultimi anni sono emersi movimenti globali che contrappongono alla globalizzazione neoliberista la globalizzazione sociale.

 Tra questi movimenti il primo e il più originale – tanto da costituire un punto di riferimento per tutti i successivi – è stato il Fronte di Liberazione Neozapatista del Chiapas. Il suo leader il subcomandante Marcos, ha capito che, per far diventare questa regione sconosciuta del Messico un caso mondiale, l’unico metodo efficace di lotta che avrebbe potuto usare non sarebbe stato la guerriglia armata tradizionale, perché sarebbe stato facilmente schiacciato, ma la guerriglia mediatica di Internet, informando quotidianamente tutto il mondo mediante il nuovo strumento della Rivoluzione tecnologica sulla situazione in Chiapas. In questo modo i Neozapatisti hanno costretto il governo messicano a venire a patti e a rinunciare all’uso della violenza, sino alla recente grande marcia verso Città del Messico che ha avuto un’eccezionale eco in tutto il mondo.

 La stessa rete Internet ha finito con l’avere un’ importanza decisiva nella costruzione dell’Alleanza fra tanti movimenti spontanei che ha dato vita al movimento del cosiddetto “ Popolo di Seattle” . S’ è verificato – come in altre occasioni della storia – ciò che Galeano ha così descritto : “ .... la condizione umana continua ostinatamente a farsi tentare dalla cattiva condotta. Là dove meno la si aspetta, spunta la ribellione e sorge la dignità. Nelle montagne del Chiapas, per esempio .... oggi, quanta gente parla attraverso queste bocche? Gli Zapatisti si trovano in Chiapas ma sono ovunque. Non sono numerosi, ma hanno molti ambasciatori spontanei. Poichè nessuno nomina questi ambasciatori essi non sono destituibili. poiché nessuno li paga, nessuno li può contare. Né comprarli”. 

Come i principi della Restaurazione i nuovi signori delle multinazionali si sono ritrovati contestati in casa: Magari temevano che la ribellione sarebbe nata nel Terzo Mondo, la parte più povera e sfruttata, quella dove sfruttano il lavoro di 250 milioni di bambini per produrre palloni e scarpe da tennis da vendere a prezzi altissimi nei Paesi ricchi; invece è successo che tanti medi e piccoli imprenditori dei Paesi ricchi, intellettuali e associazioni culturali, docenti e studenti universitari ( negli stessi Stati Uniti, in Francia, in Canada, Italia, Germania, Spagna, Gran Bretagna) e redattori della grande testata globale indipendente “ le Monde Diplomatique” hanno cominciato a capire quanto erano pericolosi gli atti che si presentavano come neutrali di BM, FMI e OMC e quanto invece avevano un’incidenza politica, quanto potevano contare anche all’interno dei Paesi ricchi. E quindi è scattato un movimento di contestazione globale che sostiene la globalizzazione sociale e ha creato parecchi problemi nelle ultime riunioni di questi organismi internazionali e del G8.

  E’ chiaro che non è ancora emersa una formazione con una precisa fisionomia politica, con un programma ed un’organizzazione. Sarebbe stato assurdo nella presente fase storica. Ciò non toglie che i movimenti della globalizzazione alternativa siano un segnale per i potenti del mondo. Essi dovranno fare prima o poi i conti  con questa nuova realtà che sta nascendo, nonostante la prima reazione nervosa con provocazioni e repressioni affiancate all’accanita campagna di demonizzazione e criminalizzazione messa in atto mediante i grandi organi d’informazione quasi totalmente controllati dalle potenze multinazionali.

Quei movimenti ci insegnano altresì che tutti dobbiamo diventare bravi nell’usare la moderna tecnologia del computer e di Internet, anche quelli meno forti. Anzi soprattutto i più poveri e i più deboli. Perché è su questo terreno che si gioca il destino futuro del mondo e dobbiamo fare uno sforzo per dialogare e collaborare tra Paesi che si somigliano, tra culture che trovano  momenti di convergenza.

 Sta emergendo per esempio la somiglianza tra il popolo cubano e il popolo italiano. Ci sono tanti elementi culturali che ci accomunano, primo fra tutti l’essere gli uni al centro del Mediterraneo e gli altri al centro del Mediterraneo del Caribe.  Momenti di convergenza che si esprimono non soltanto attraverso l’unificazione europea ma anche attraverso questi rapporti che si devono creare a livello internazionale e che saranno forse la migliore risposta da dare alla globalizzazione governata dai grandi poteri economici. Bisognerà sempre più organizzarsi soprattutto dal punto di vista culturale, perché qualsiasi problema venga affrontato rispettando le realtà locali e le diverse identità.

 Pertanto la prospettiva di un mondo che non sarà più uniforme, che non sarà più governato da un’unica potenza, che non sarà più governato da quegli organismi internazionali neutrali, è una prospettiva reale che si presenta a tanti e che mi fa concludere la storia dell’Italia del XX secolo in quello che  è ormai il complesso scenario della globalizzazione. Anche l’Italia come qualsiasi altro Paese deve tener conto di stare in Europa; e ne ha tenuto conto, ha fatto dei sacrifici per entrarci, ha capito che era importante entrarci, perché significava restare dentro o fuori da quella situazione.

 Significava restare dentro o fuori dal futuro, perché il futuro va inesorabilmente in questa direzione, il futuro va verso una collaborazione sempre più intensa tra diversi popoli, tra diverse culture. Ed io sono sinceramente orgoglioso di essere stato insieme a voi, non soltanto per seguire con molta attenzione tutto quello che sta avvenendo in questa Settimana della Cultura Italiana ma soprattutto per ampliare un rapporto di collaborazione culturale intenso.


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