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28 lug
Pasquale Amato _ Saggi _ Visualizzazioni: 712180

REGGIO CAPOLUOGO MORALE

REGGIO CAPOLUOGO MORALE

Da Lunedì 27 luglio 2020 è stato ripubblicato a puntate il mio saggio "Reggio Capoluogo Morale"sulla Rivolta di Reggio del 1970-71. Ogni giorno è stato pubblicato un nuovo paragrafo online, esclusa la Domenica. Il saggio è stato edito nel 1998 da Città del Sole Edizioni di Reggio Calabria.
Per non ingenerare confusioni l'avvio è stato attualizzato al 2020:
"Siamo nell'Anno 2750 dalla fondazione di Reghion. E sono passati 50 anni da quel 14 luglio 1970 in cui... (continua).

1. LA RIVOLTA


Siamo nell’anno 2.750 dalla fondazione di Reghion. E sono passati 50 anni da quel 14 luglio 1970 in cui la città più antica e grande della Calabria, una delle prime fondate dai Greci in Occidente, la più coerente amica dell’Atene classica e la più ateniese per cultura e mentalità, si ribellò contro una profonda, palese ingiustizia che aveva stracciato la storia: lo scippo del capoluogo regionale a favore di Catanzaro.
Si ribellò contro il governo ed i maggiori partiti del Paese, la televisione di stato controllata da quegli stessi partiti, la grande stampa nazionale propensa a interpretare in chiave negativa qualsiasi fenomeno di orgogliosa e disinteressata protesta civile emerso nel Sud . Ancor più in quel caso, che non si presentava nella stereotipata veste del Mezzogiorno-Africa descritto dal plenipotenziario piemontese Pier Carlo Farini nel 1860: regno dell’assistenza, delle clientele e del malaffare. Si ribellò senza esitazioni contro una concentrazione di forze mille volte maggiore.

1.1. LA MISTIFICAZIONE


La “Grande Coalizione” orchestrò una mistificazione delle ragioni vere della protesta. Una mistificazione che capovolse le posizioni: gli scippatori divennero saggi, civili e responsabili regionalisti; e gli scippati espressione non della rabbia di chi è stato escluso da tutto ma del più abietto e ottuso campanilismo, di sub-cultura propensa alla violenza e di arretratezza civile. Avvenne così che nello spazio di poche settimane i 170.000 abitanti della Città del Bergamotto si ritrovarono tramutati in “fascisti” e “teppisti”, versione aggiornata degli ottocenteschi briganti e manutengoli.
Eppure nelle elezioni del 7 giugno ‘70 i reggini avevano riversato nelle urne la maggioranza dei loro voti sulla DC (23 seggi su 50 alle Comunali, 10 seggi su 30 alle Provinciali, 5 Consiglieri Regionali su 11 della Provincia reggina), quote molto elevate di consensi sul PSI (8 seggi alle Comunali, 5 alle Provinciali, 2 Consiglieri Regionali) e sul PCI (7 seggi alle Comunali, 7 alle Provinciali, 3 Consiglieri Regionali) e buone percentuali sugli altri partiti del cosiddetto “arco costituzionale”: PSU (6 seggi alle Comunali, 2 alle Provinciali, 1 Consigliere Regionale), PSIUP (1 seggio alle Comunali e 1 alle Provinciali), PRI (1 seggio alle Comunali e 1 alle Provinciali), PLI (1 seggio alle Comunali e 1 alle Provinciali). Mentre il MSI aveva ottenuto 3 seggi ale Comunali del Capoluogo, 3 alle Provinciali e nessuno alle Regionali.
Sebbene si trattasse di percentuali superiori alla media nazionale, considerare Reggio e la sua provincia una Vandéa fascista non era razional-mente una tesi accettabile. Era piuttosto una copertura della negazione di solide ragioni: Reggio era stata la prima città fondata dai greci in Calabria (nel 730 a.C. da emigranti calcidesi e profughi della Messenia) e la prima dove Paolo di Tarso nel 60 d.C. aveva introdotto il Cristianesimo; la prima per popolazione, la più aperta e meglio collegata con l’esterno per la sua magnifica e inimitabile posizione nella mitica Area dello Stretto, sede di quasi tutti gli Uffici Regionali tra cui i Compartimenti delle Poste e delle Ferrovie e la Soprintendenze Archeologica e Archivistica; l’unica produttrice al mondo del prezioso Bergamotto, l’agrume che per un insieme di fattori straordinari attecchisce soltanto nella fascia costiera da Scilla a Marina di Gioiosa. Peculiarità cui si affiancavano il dinamismo culturale, la vivace creatività letteraria e artistica, l’apertura ai flussi nuovi del pensiero e della scienza nell’ambito della Koiné dello Stretto: quel senso di comune appartenenza culturale a un’area che dai tempi di Omero aveva costituito il crocevia dei movimenti di popoli, commerci e flussi culturali del Mediterraneo.
I più onesti osservatori ed i giornalisti più liberi da pregiudizi o da vincoli ideologici sin dai primi giorni testimoniarono il carattere di coralità della protesta e riconobbero la grandezza di un popolo che si batteva non per chiedere pane e lavoro ma per la sua dignità, offesa da una cocente ingiustizia. Ebbero il coraggio di sostenere - in particolare Alfonso Madeo e Egidio Sterpa del Corriere della Sera e Francesco Fornari de La Stampa - che la Rivolta non rispondeva “a logiche precise, a previsioni razionali, a schematizzazioni interpretative”(1). Ed evidenziarono “esasperazione, frustrazione, ribellione della folla. Sentimenti e stati d’animo che si ritrovavano a tutti i livelli, senza distinzione di classe sociale, di colore politico, di età” (2). Insomma, “c’erano dentro tutti: borghesi, proletari, giovani, vecchi, comunisti, neofascisti, socialisti, democristiani, repubblicani...Sono...spuntati alcuni capipopolo, ma probabilmente anche senza di essi la rivolta sarebbe esplosa”(3).

1.2. I PRIMI “CENTO GIORNI” DELLA GUERRIGLIA

Accanto alla massiccia manipolazione delle notizie venne attuata una vera e propria occupazione militare di forze dell’ordine. Diecimila uomini attrezzati di autoblindo, mezzi cingolati, autobotti, camion, camionette, autoradio e il battaglione mobile corazzato dei Baschi Neri dei Carabinieri tentarono di riportare l’ordine. A reggere con accortezza il timone di questo imponente dispiegamento fu il Questore Emilio Santillo, il quale - nell’assenza di qualsiasi altra presenza dello Stato e del Governo oltre al Prefetto De Rossi - svolse di fatto il ruolo di Governatore Politico-Militare.
L’intento governativo era di chiudere la partita in tempi brevi, non esitando a usare metodi forti e arresti di massa ingiustificati, specie nelle prime settimane.
Il risultato fu esattamente il contrario, con l’inasprimento degli animi e l’acuirsi della Rivolta. Nei cento giorni da quel 14 luglio - in cui la protesta esplose col primo dei Cortei dei 30.000 - al 21 ottobre ‘70 Reggio visse in una dimensione di guerriglia urbana mai conosciuta da una città europea se si escludono le vicende di Belfast, il maggio del ‘68 nel Quartiere Latino di Parigi e l’Agosto del ‘68 a Praga: “sassaiole e lacrimogeni, tritolo e arresti, cariche e bombe Molotov, frecce incendiarie e candelotti, incendi, inseguimenti, assalti, fughe, agguati, barricate, bastoni e manganelli, irruzioni, feriti e morti... Una guerriglia da inventare e improvvisare da un’ora all’altra... Treni fermi, traghetti bloccati, strade interrotte, botteghe chiuse, quartieri isolati”(4).
Nei caldi giorni di luglio e agosto - la prima fase, quella della rabbia di massa espressa nella maniera più genuina e disordinata - si delinearono gli scenari della guerriglia: il Corso Garibaldi - cuore pulsante del centro storico, elegante salotto settecentesco dove la gente si parla da un marciapiede all’altro - con le sue “traverse” (le vie che lo tagliano perpendicolarmente dalle Scalinate al mare); la Via Marina - il gioiello in mezzo alla flora di tutti i continenti, da cui si gode la vista di uno dei panorami più affascinanti del mondo; i quartieri popolari che fanno da anticamera al Centro Storico a Nord - Santa Caterina, “il Granducato” - e a Sud - Sbarre, “la Repubblica”.
Quei primi scenari - di fronte all’arroganza del Presidente del Consiglio Regionale Mario Casalinuovo che si ostinava a convocare l’Assemblea a Catanzaro nonostante il capo del Governo Emilio Colombo avesse demandato la decisione per il Capoluogo al Parlamento - si allargarono in settembre a tutti i quartieri della città da Bolano di Catona a Bocale di Pellaro passando per l’area collinare e arrivando in Aspromonte sino al Comprensorio di Gambarie.
E si estesero nella terza fase - la più acuta, quella dello sciopero generale di ottobre - all’intera provincia, che testimoniò il suo profondo storico legame con Reggio traumatizzando tutti gli osservatori e provocando panico negli ambienti di Governo. Per venti giorni la provincia reggina si isolò dal Paese: le strade statali tirrenica e jonica e le linee ferroviarie vennero bloccate; i porti di Reggio e Villa S. Giovanni furono ostruiti - con le Navi Traghetto dirottate sulle linee improvvisate Messina-Vibo Valentia e Messina-Civitavecchia; e le forze dell’ordine - nei momenti in cui si giunse alle soglie della guerra civile - rimasero acquartierate nelle scuole pubbliche (trasformate in Caserme) per decisione di Santillo. Il Questore si assunse difatti la responsabilità di usare “il guanto di velluto o il pugno di ferro”, perché “la piazza si disinnesca con il tatto, a seconda delle circostanze” (5).
Tuttavia le pressioni politiche per riportare l’ordine ebbero il soprav-vento. L’assedio venne sbloccato con l’arrivo di rinforzi dapprima nelle strade statali e nella linea ferrata (con l’esercito e gli alpini dislocati a presidiarle metro per metro) e poi con vere e proprie spedizioni militari nei porti, nel Centro Storico e a Santa Caterina. Alla Repubblica di Sbarre - dove s’era arrivati alle barricate in cemento - venne riservato un trattamento speciale: all’alba di venerdì 16 ottobre tre colonne autotrasportate di 900 uomini si mossero per “prendere” il Quartiere da tutti i lati, abbattere con potenti ruspe le barricate e ridurre alla ragione i giovani studenti e operai Barricaderos. Ma tutto si rivelò effimero. Le barricate abbattute rinascevano, mentre gruppi di giovani apparivano, lanciavano pietre e bottiglie molotov e si dileguavano nei vicoli invano inseguiti da celerini e carabinieri: era
“una guerriglia in piena regola con tanto di trappole, di avanzate, di ripiegamenti, di capovolgimenti di fronte, di imbottigliamenti, di infiltrazioni. Il tutto in un’atmosfera resa apocalittica da un’insieme bene assortito di gas lacrimogeni, di vampate improvvise e vistose sprigionatesi dalle bottiglie molotov, di pioggia torrenziale accompagnata da tuoni... e di una pioggia di sassi e di corpi contundenti di altra natura, altrettanto fitta e più pericolosa dell’altra”(6).
Pioveva a dirotto ma la gente di Sbarre era “sempre lì nelle strade”, ad assistere, ad avvertire e a suggerire, a nascondere e proteggere i giovani dell’intifada, a soffrire per loro quando erano costretti a ritirarsi ed a gioire con loro quando innalzavano nuove barricate o respingevano una carica. Era proprio quella gente, con la sua solidarietà e la sua partecipazione corale, a rendere temerari i guerriglieri (7).

Se nei giorni di maggiore tensione - dopo l’uccisione del ferroviere della CGIL Bruno Labate il 15 luglio e dopo quella dell’autista dell’AMA Angelo Campanella la sera del 17 settembre con relativi assalti alla Questura - il Governatore Santillo avesse perduto il controllo dei nervi si sarebbe innestata una spirale di tipo irlandese o israelo-palestinese ed “il dramma sarebbe diventato una grande tragedia nazionale”(8).

1.3. LA TREGUA E IL PARTITO TRASVERSALE

La discesa in campo della Provincia produsse effetti dirompenti. Segnò difatti una svolta nei comportamenti dei vertici politici nazionali. Giancesare Flesca su L’Astrolabio e Valentino Parlato su Il Manifesto non lesinarono roventi critiche alle posizioni di PSI e PCI e dei loro giornali ufficiali, vessilliferi della campagna sui teppisti e fascisti. Il primo denunciò “cariche indiscriminate, inseguimenti nei portoni, inutili sparatorie verso il cielo” e riferì di “stimati professionisti...percossi senza sapere perchè” e si chiese perchè le forze di sinistra non si fossero inserite “in un movimento che, nonostante il parere di molti, non era affatto destinato ad una ...gestione di destra”(9). Parlato affondò il bisturi dell’analisi e ne trasse argute valutazio-ni:“L’ideologia del capoluogo ha pervaso tutti gli strati sociali, e non senza ragione: nella generale disgregazione della società urbana...uno sbocco al disegno di identificazione culturale è stato trovato nell’esasperato senso di appartenenza territoriale”(10).
Ne conseguì la necessità per il Governo di cambiare registro. Alle prime reazioni mistificatorie e repressive subentrò una più articolata strategia del bastone e della carota: da una parte venne intensificata la criminaliz-zazione collettiva; dall’altra venne tirata fuori la tesi che la rabbia di Reggio e della sua provincia fosse originata dall’alto tasso di disoccupazione. Venne così varato il “pacchetto Colombo” con la prospettiva di 10.500 posti di lavoro nel capoluogo e nella provincia, di cui 7.500 nel V Centro Siderurgico di Gioia Tauro. Struttura già destinata dal CIPE alla Sicilia, ma dirottata in fretta e furia verso la provincia reggina per riparare con quella promessa all’estromissione di essa dagli accordi politici sul futuro della Calabria.
Il “pacchetto” generò tiepide ma diffidenti aspettative nella provincia e penetrò soltanto in alcuni settori dell’intellighenzia, studenteschi e del sindacato nella città. Infatti venne presentato come alternativa più nobile della guerra per il capoluogo, fornendo una motivazione cultural-pro-gressista a chi nella sinistra non riusciva a capire perchè PSI e PCI si fossero messi di traverso alla Rivolta. Il ragionamento era: “noi puntiamo sulla creazione di migliaia di posti di lavoro. Questa è la nostra risposta alla giusta rabbia della gente“. Un’esigua minoranza ci credette sinceramente. E ne trasse motivo d’orgoglio per non confondersi con l’obiettivo più semplice, immediato e comprensibile. Ma la maggioranza schiacciante rispose con un no secco, perché scottata da tante delusioni subite . Un esempio veniva dal caso delle Officine OMECA per la produzione di materiale ferroviario: era stata promessa un’occupazione di 2000 operai, mentre s’era limitata a poche centinaia. I reggini quindi non vollero saperne della chimera e continuarono a battersi per ciò che, a loro giudizio, avevano già e gli era stato rubato.
Nel contempo partì una nuova campagna di informazione imperniata su due tesi contraddittorie: per un verso si sostenne che una città che s’era ribellata facendo ricorso alla violenza non poteva essere “premiata”; - 4 -per l’altro si prospettò che - in caso di una decisione del Comitato dei Nove del Parlamento a favore di Reggio - la Rivolta sarebbe scoppiata a Catanzaro, che si sentiva già investita del titolo. In prima fila furono Gianpaolo Pansa de La Stampa, Franco Pierini de Il Giorno, Bruno Tucci de Il Messaggero e Salvatore Scarpino de La Notte (11).
La campagna di stampa fece da supporto alla controffensiva politica, guidata dal Presidente catanzarese del Consiglio Regionale Mario Casalinuovo (iscritto al PSI): sostenne che la decisione del capoluogo spettava al Consiglio Regionale. L’intento era chiaro: considerando il “patto scellerato” tra i vertici cosentini e catanzaresi, ne sarebbe scaturita una decisione sfavorevole a Reggio. E il 13 gennaio ‘71, per incrementare la pressione a favore della sua tesi, Casalinuovo - col sostegno compatto dell’intera classe politica ca-tanzarese, da sempre caratterizzata da una compatta e tetragona trasver-salità campanilistica al di sopra delle sigle e dei partiti, dall’estrema destra alla sinistra - fece partire dall’Ordine degli Avvocati (di cui era esponente assieme al Consigliere regionale Marini del MSI) l’iniziativa del Comitato d’Azione per la difesa dei Diritti di Catanzaro (12).
Il nuovo organismo si rivelò subito uno strumento di attacco viscerale contro le “illegittime pretese di Reggio tendenti a sottrarre a Catanzaro il capoluogo della regione con i suoi importanti uffici, tra cui la Corte d’Appello” e arrivò a proporre la soppressione della Sezione della Corte d’Appello di Reggio “dai Tribunali delle Calabrie” e la sua riaggregazione a Messina, di cui aveva fatto parte dal 1923 al 1944 senza che emergessero mai dissidi(13). Era una storia vecchia. Le convocazioni nel luglio del ‘70 del consiglio Regionale a Catanzaro erano state fondate sulla città Sede di Corte d’Appello, unico Ufficio mancante a Reggio perchè Sezione Distaccata della Corte d’Appello di Catanzaro dal 1947. La rivendicazione più volte negata dell’Aggregazione dei Tribunali di Palmi e Locri sarebbe avvenuta nel dicembre ‘75, mentre il Riconoscimento della Corte d’Appello Autonoma a Reggio avrebbe completato l’iter il 5 luglio 1989.

1.4. L’EPOPEA DEI “BARRICADEROS”

Quel Documento costituiva una conferma dei sentimenti di gelosia e invidia covati nei confronti della Città del Bergamotto e nel contempo una provocazione per riattizzare la Rivolta - a Reggio regnava da oltre due mesi la tregua in attesa delle decisioni del Parlamento - e farsi forti della tesi di non premiare la violenza.
A far precipitare gli eventi giunse il 20 gennaio la decisione di Roma di demandare la scelta al Consiglio Regionale con l’assistenza della Com-missione Affari Costituzionali. Era prevalsa la tesi di Casalinuovo. Con l’appendice del Decreto del Ministro degli Interni Franco Restivo di divieto di qualsiasi manifestazione pubblica nella provincia di Reggio. E col corollario dei mandati di cattura per istigazione a delinquere aggravata e apologia di reato a Demetrio Mauro (industriale del caffè), Alfredo Perna (ex-comandante partigiano), Domenico Siclari, Giuseppe Santo Canale (Segretario della Sezione PSI di Sbarre), arrestati, e Ciccio Franco (Segretario della CISNAL e leader più popolare della Rivolta, latitante)(14). Passò qualche giorno e venne arrestato con accuse ancora più gravi l’armatore Amedeo Matacena, repubblicano (15).

In un’intervista all’inviato de Il Fiorino l’armatore napoletano - reggino di adozione - aveva motivato la sua partecipazione alla Rivolta: “ci sono tre Calabrie...Gli altri non ci vogliono... allora facciamo la Calabria-Sud. Abbiamo...indetto un plebiscito. In pochi giorni mi hanno risposto migliaia di persone”. Ed aveva confermato di essere stato “antifascista sul serio...Altro che caporione fascista. Io ho tentato di parlare con questa città, quando gli altri non ne hanno avuto il coraggio e l’hanno lasciata sola”(16).
Al danno si aggiunse così la beffa, rafforzando la sensazione della popolazione reggina di essere isolata ed emarginata dall’intero paese. La sua reazione fu quindi ancor più rabbiosa. Il 21 gennaio scattò la quarta fase, con uno sciopero generale proclamato dal Comitato d’Azione per Reggio Capoluogo: chiusi negozi, piccoli e grandi magazzini, bar e ritrovi pubblici; sospeso il lavoro negli uffici pubblici, parastali e privati; sospese le udienze, bloccati i cantieri, le fabbriche, i laboratori e le officine; fermi gli autobus. E in barba al Divieto Restivo assembramenti ovunque, con piazze trasformate in tante occasioni di dibattiti e riunioni sul da farsi. E tornarono i giorni delle barricate e della guerriglia, delle bombe lacrimogene e delle pietre e bottiglie incendiarie, delle cariche e dei blochi di strade, ferrovie e porti. Il Corso ritornò un campo di battaglia, Sbarre e S. Caterina si riorganizzarono in due comunità autonome, gli altri quartieri collabaravano tramite azioni a sorpresa che disorientavano e distraevano le forze dell’ordine.
Alfonso Madeo colse gli aspetti profondamente popolari della protesta meglio di tutti gli altri inviati. Ed Il Corriere della Sera , grazie ai suoi articoli, raggiunse a Reggio ben 18.000 copie giornaliere insidiando il primato delle 20.000 della Gazzetta del Sud in una città che era divenuta eccezionalmente avida di leggere, conoscere e dibattere:
“Carri armati nella zona di Scilla. Le terrazze di Bagnara e di Scilla presidiate da reparti dell’esercito. Dodici mezzi cingolati e venti autocarri dei fucilieri di Cesano a protezione del porto di Villa S. Giovanni...Stentati i collegamenti con la Sicilia...La guerra per il capoluogo compie sette mesi. Si stenta a credere che i reggini siano sopravvissuti a simili condizioni di lacerazione psicologica e di disastro economico, di lutti e sangue e lacrime...Si corre nell’oscurità cieca di un tunnel...Quando attraverso il centro, nell’aria ristagna un senso cupo di attesa. La gente ha i nervi a fior di pelle...Donne ai balconi, grappoli d’uomini agli angoli delle strade. Sentore di gomme bruciate. Carcasse di automobili. Al mattino entrano in funzione le ruspe della polizia per rimuovere le barricate, al tramonto le barricate risorgono sempre solide e insidiose: è diventato un rito quotidiano, ormai”(17).
Si fece strada nei più la convinzione che l’abilità del Questore Santillo e la paziente mediazione dell’Arcivescovo Ferro - coadiuvato dai preti della rivolta (tra cui Don Agostino, Don Nunnari e Don Zoccali) non avrebbero potuto alla lunga trattenere la rabbia popolare. E lo spettro della Guerra Civile tornò prepotentemente alla ribalta.

1.5. IL COMPROMESSO DEI “DUE CAPOLUOGHI”


Caddero così le ultime perplessità su una certezza ormai diffusa: pur emarginata e isolata, Reggio non avrebbe potuto mai essere schiacciata. L’unica via d’uscita era - e fu quella che emerse da frenetiche riunioni romane - il cosiddetto “Compromesso Colombo” dell’art. 2 dello Statuto Regionale: il Governo salvò la faccia con la conferma del capoluogo burocratico a Catanzaro e dell’Università a Cosenza; nel contempo si piegò dinanzi all’ostinata resistenza della “città ribelle”, ammettendone di fatto le buone ragioni con l’assegnazione della Sede del Consiglio Regionale, - affiancata dall’impegno dell’insediamento del Centro Siderurgico di Gioia Tauro con 7.500 posti di lavoro e di altre industrie nel Capoluogo ed in provincia per altri 3.000 occupati. Nel contempo venne assunto il solenne impegno che tutte le Sedi Regionali o di Uffici Regionali sarebbero rimaste laddove si trovavano nel febbraio del ‘71.
Si arrivò così al Consiglio Regionale del 15/16 febbraio. I partiti del Centro-Sinistra presentarono un o.d.g. che ricalcava l’accordo romano. Furono necessari diversi interventi personali del Presidente Colombo per far digerire la soluzione del “doppio capoluogo” (come lo definì il capogruppo del PLI Torchia). Quattro Consiglieri reggini (Pasquale Iacopino, Domenico Intrieri e Antonino Lupoi democristiani e Benedetto Mallamaci socialdemocratico) non parteciparono alla seduta per protestare contro “l’offesa alla giusta aspettativa del popolo reggino” (18). Torchia considerò invece il compromesso come “una vittoria del Sindaco di Reggio” e “un cedimento alla piazza” (19). Dopo una notte drammatica - alle sei della mattina del 16 febbraio - l’o.d.g. della maggioranza venne approvato con 21 voti favorevoli (14 DC, 5 PSI, 1 PRI, 1 PSDI), 12 contrari (9 PCI, 1 MSI, 1 PLI, 1 PSIUP) e 1 astenuto (Casalinuovo, deluso per la vittoria dimezzata). Vennero respinti gli o.d.g. di PCI (Catanzaro capoluogo unico con possibili Sessioni del Consiglio e Dipartimenti nelle altre città), PLI (Catanzaro Capoluogo unico con eventuali Sessioni del Consiglio in altre città), PSIUP (assetto unitario senza specificare il Capoluogo), MSI (Catanzaro Capoluogo unico, con protesta ufficiale del Gruppo “per un’assurda destinazione dell’Assemblea in luogo diverso dal capoluogo, che è stato, è e dovrà continuare a essere Catanzaro”) (20).
Dall’andamento dei lavori si arguisce che senza la Rivolta la partita era stata già persa. Infatti la parte dell’accordo concernente Reggio e la sua provincia (Sede del Consiglio, Uffici Regionali, Insediamenti Industriali) venne a fatica ingoiata dai Consiglieri dell’Area governativa perchè imposta da Roma, che doveva chiudere comunque la tenace resistenza popolare che aveva scompigliato tutte le manovre di corridoio. Mentre , ad eccezione del PSIUP, i partiti di opposizione - ritenendosi liberi dal dovere ricercare mediazioni - confermarono le posizioni favorevoli a Catanzaro, con una particolare animosità campanilistica da parte del PLI e del MSI. Quest’ultimo in palese contraddizione con l’identificazione ufficiale della Rivolta di Reggio come ispirata e guidata da esso. Aspetto che venne ignorato dal MSI di Reggio e che non fu evidenziato dalla grande stampa e neanche dagli altri partiti. Sennò sarebbe saltato il teorema su cui era stata costruita la mistificazione.

1.6. I CINGOLATI CONTRO I “BARRICADEROS”

Questi giochi con più mazzi di carte non sfuggirono ai reggini, in quel periodo attenti lettori di tutto e di tutti. Nessuno stavolta aspettò proclamazioni di sciopero. La reazione esplose spontanea e risultò ancor più incisiva, grazie all’esperienza accumulata in sette mesi. Santillo adottò la sua consolidata tattica dell’alternanza tra interventi massicci di sfondamento e pause di non-contatto. Un sit-in silenzioso in Piazza Italia (l’Agorà dei reggini) di oltre mille persone - tra cui donne, vecchi e bambini - non venne represso dalla Polizia. Il Governatore spiegò così il non-contatto: “Mi assumo ogni responsabilità di quanto sono costretto a fare, c’è troppa esasperazione. Stanotte non ci sono stati organizzatori di disordine. La città ha reagito spontaneamente, bisogna tenerne conto” (21).
E la Repubblica Popolare di Sbarre - nel racconto di Madeo - divenne impenetrabile, chiusa da barricate di cemento armato, organizzata in “modello di vita autonoma. Durante la notte, cortei percorrono le strade cantando...Sentinelle si avvicendano sulle barricate e sui tetti. Uomini e donne accumulano pietre, preparano fionde. Il mutare delle situazioni e delle necessità produce tribuni e Masanielli a getto continuo”(22). Lo stesso Santillo riconobbe la tenacia dei barricaderos:“Azioni di guerriglia continua, uno stillicidio ininterrotto. Demolivamo una barricata e la ricostruivano; occupavamo un tratto di strada, e ne perdevamo il precedente”(23). I rivoltosi, “da tempo padroni della notte” , ora erano anche “padroni del pomeriggio”, con la polizia “consegnata nelle caserme” (24).
Il Corso era di nuovo in mano ai giovani dell’Intifada, Santa Caterina e Sbarre organizzate in entità autonome, strade e ferrovie bloccate e senza segni di cedimento dopo sette mesi di Rivolta. Il Governo - che si trovava impantanato in una specie di via senza uscita - ricevette da un intervento del vice-segretario del PCI Enrico Berlinguer il via libera per poter intervenire militarmente (25).
Era un fatto senza precedenti nell’Italia repubblicana. E accese polemiche anche nella sinistra. Il deputato reggino del PSIUP Rocco Minasi si oppose fermamente sino a dimettersi il 27 marzo dal suo partito, non avendo condiviso l’uso della forza militare contro la popolazione civile: “...noi che siamo sempre stati contro l’uso di queste forze lo siamo anche a Reggio e saremo, nella malaugurata ipotesi, dalla parte del popolo”(26).
Ma ormai il dado era tratto. Dopo aver dato la carota del doppio capoluogo e della generosa promessa di 10.500 posti di lavoro, il Governo si sentiva in diritto di usare il bastone più pesante possibile. Arrivarono truppe da tutto il Paese, dagli alpini ai paracadutisti. Furono mandate a presidiare strade, ferrovie e porti. Il 17 febbraio vennero sbarcati a Villa S. Giovanni ventiquattro cingolati “M113” del Battaglione Mobile dei Carabinieri, armati di una mitragliatrice Browning 12,7 (27). Il cartello con lo slogan “Reggio come Praga” divenne una bandiera eretta ovunque sulle barricate.
Il 18 febbraio mille uomini suddivisi in quattro colonne e con sette mezzi cingolati avanzarono tra le barricate ed i lanci di oggetti di tutti i generi nelle quattro vie parallele e rioccuparono il Granducato di S. Caterina (28). Il 22 febbraio toccò all’ultima roccaforte: la Repubblica Popolare di Sbarre, irriducibile nella sua resistenza a oltranza. Fu “una vera operazione di guerra: due, forse tremila uomini fra agenti e carabinieri, una trentina di carri cingolati, poi ruspe, tigrotti, camionette, jeep in numero infinito”(29). Per maggiore sicurezza “l’hanno presa nel sonno, all’improvviso. E per non farla svegliare le hanno tolto persino la luce. Sbarre è caduta così, stamane ancor prima dell’alba. Alle 5 il fragore dei cingolati ha svegliato gli abitanti di S. Caterina” (30) per abbattere alcune barricate ricostruite.
Si trattò di un’operazione chirurgica delicata e lasciò strascichi pro-fondi, efficacemente espressi da Don Giovanni Laganà, uno fra i tanti preti della Rivolta : “Prima di togliere le barricate dalle strade, le devono togliere dal nostro cuore”(31).
Nei giorni e nei mesi successivi vi furono ancora manifestazioni di massa, momenti di tensione, scontri. In uno di questi - il 17 settembre 1971, nel giorno dell’anniversario della morte di Campanella - perse la vita il cameriere Carmine Jaconis. Il 24 settembre 1971 venne revocato, soltanto per i comuni della provincia, il Decreto Restivo. Nel capoluogo storico - dopo oltre un anno dal 14 luglio ‘70 - lo Stato non si sentiva ancora sicuro di controllare l’ordine democratico.
Così, nel 1971 Reggio - da sempre accomunata a Messina da attacchi militari e terremoti che le avevano rase al suolo - era di nuovo ridotta in macerie. Quasi un anno di guerriglia urbana aveva degradato strutture e servizi. Ma aveva fatto di peggio: aveva alimentato negli animi atteggiamenti collettivi di disamore e di disprezzo nei confronti di qualsiasi bene pubblico o regola o istituzione dello Stato.


1.7. LE PECULIARITÀ

Nonostante lo stato d’assedio e la terra bruciata, i reggini erano riusciti comunque a tenere in scacco per sette mesi il sistema politico, lo Stato, il governo. Una rivolta così lunga non aveva precedenti nella storia del Mezzogiorno. Storia percorsa da ricorrenti jacqueries contadine e dal brigantaggio oppure da vampate di rivolte urbane domate in tempi brevi.
Il “caso Reggio” si caratterizzò viceversa come un fenomeno nuovo e complesso. Con suoi specifici connotati:
a) fu la prima contestazione di un’intera città contro uno Stato, sulla scia del Movimento del ‘68 che aveva dato uno scossone alle gerarchie consolidate in tutto il mondo. Fu il ‘68 nel Sud, anomalo ma più globale e di massa, molto più simile ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo;
b) fu la prima rivolta urbana in era repubblicana contro i vertici politici nazionali (in cui erano allora determinanti i cosentini Giacomo Mancini - leader nazionale del PSI - e Riccardo Misasi - ministro e uomo di punta della DC e il catanzarese Pucci - anch’egli democristiano);
c) fu una rivolta autenticamente popolare con un bilancio pauroso: cinque caduti, di cui tre civili (Bruno Labate, Angelo Campanella, Carmine Iaconis) e due agenti ( e Antonio Bellotti), decine di feriti gravi, centinaia di feriti, migliaia di contusi fra le forze dell’ordine e fra i dimostranti (cifre approssimative perché quelle vere non si sapranno mai in quanto le autorità ridussero i numeri per non dare l’idea di una debàcle delle forze dell’ordine, mentre i dimostranti fecero di tutto per evitare le cure negli ospedali pubblici per non essere denunciati o arrestati); centinaia di arresti, detenzioni preventive, fermi e relativi processi. Una rivolta con i suoi eccessi (gli attentati , da quello del 22 luglio al Treno Reggio -Torino presso Gioia Tauro a quelli contro i consiglieri regionali Paolo Consolato Latella - PSI e Vico Ligato - DC e il Sottosegretario Sebastiano Vincelli -DC). E con i suoi “colpi di fantasia popolare”, come la Processione della Patrona della Città Madonna della Consolazione, anticipata al 31 luglio rispetto al primo sabato di settembre col risultato di “ mobilitare le tensioni emotive e lo spirito di religiosità di una popolazione intera” (32);
d) fu una rivolta interclassista, in cui il senso di appartenenza alla stessa comunità generò una straordinaria unità d’intenti e di azione in tutti i segmenti della società, dai professionisti agli impiegati e ai pensionati, dagli studenti agli operai, dai preti ai disoccupati e sottoccupati dei quartieri popolari “rossi”. Si ritrovarono accomunate nelle varie organizzazioni spontanee - tra cui emersero il Comitato d’Azione per Reggio Capoluogo e il Comitato d’Intesa - personalità che venivano da esperienze politiche, professionali e umane profondamente diverse e talora lontane: l’industriale del caffè Demetrio Mauro (che non s’era mai interessato di politica ed era animato da sinceri sentimenti di amore per la sua città) e l’Arcivescovo Mons. Giovanni Ferro (che sentì il dovere di stare vicino alla sua gente e svolse un ruolo decisivo nell’impedire la degenerazione in guerra civile), l’ex-comandante partigiano Alfredo Perna e l’armatore Amedeo Matacena, il socialista Giuseppe Canale, gli ingegneri Raffaele Granillo e Rocco Zoccali, l’impiegato Benito Foti, i giornalisti Antonio Dieni e Antonio La Tella, gli avvocati Pietro Romano e Francesco Gangemi, il Procuratore Legale Giuseppe Lupis, l’ing. Eugenio Castellani e sua moglie Claudia “la Pasionaria”; preti impegnati e coraggiosi come Don Salvatore Nunnari e Mons. Agostino;
e) fu una rivolta delle donne,mai così tante nei cortei e nelle barricate sul Corso e in periferia, dalle signore del Centro Storico che vestivano i modelli della signora Versace e del giovane figlio-allievo Gianni alle popolane dei quartieri rossi. Sterpa osservò che le ragazze erano “le più accanite guerrigliere” e si comportavano da “piccole Pasionarie” infer-vorandosi nelle discussioni (33). E ipotizzò “una sorta di rivoluzione femminile nel Sud. La donna...ha animato e partecipato alle manifestazioni di piazza. Non era mai accaduto prima d’ora...nella misura in cui è accaduto a Reggio”(34).

1.8. I LEADERS

Nonostante queste caratteristiche di coralità la Rivolta espresse - per riconoscimento unanime della gente ed anche dei suoi critici e avversari - due protagonisti maggiori che, pur con ruoli diversi e caratteri e percorsi politici differenti, riuscirono a rappresentare l’immaginario collettivo e, comunque, ad esserne considerati i leaders: Pietro Battaglia e Ciccio Franco.
Il Sindaco democristiano Pietro Battaglia (al vertice della prima giunta di centro-sinistra che negli anni precedenti aveva operato con dina-mismo e piglio manageriale, con l’esito di un successo personale del Sindaco il 7 giugno) fu l’innescatore della protesta col Rapporto alla Città del 5 luglio, in cui denunciò il “patto scellerato” tra i maggiori leaders politici catanzaresi e cosentini. Battaglia fu il massimo protagonista a livello politico istituzionale, al centro di ogni iniziativa della DC e dei partiti di governo per raddrizzare gli “effetti deleteri” del Patto. Collocato nella frontiera minata tra l’essere esponente di una maggioranza che aveva deciso l’emarginazione di Reggio dal nuovo assetto regionale e l’essere Sindaco della città esclusa , riuscì a barcamenarsi con abilità tra mille ostacoli, sempre in bilico tra il ruolo istituzionale e l’adesione piena e convinta alle ragioni della sua gente.
Non per caso egli divenne il bersaglio preferito dei tanti nemici della Rivolta, accusato di tutto: di aver acceso la miccia, di averla indirettamente alimentata soffiando sul fuoco dietro le quinte, di averla indirizzata e consigliata negli obiettivi strategici e nelle scelte tattiche. La verità era a metà strada. Spesso la rivolta popolare seguì una sua logica dell’istinto non seguendo alcuna indicazione, né sua né di altri. Battaglia fu comunque un lucido, accorto e coraggioso sostenitore degli interessi della sua comunità. Egli stesso ha ricordato di essere stato trattato “per lunghi anni...come...un lebbroso della vita politica” e di essersi trovato - dopo l’elezione alla Camera nel 1987 - in una “solitudine...più raggelante” dei tempi della Rivolta (35).

Il sindacalista della CISNAL Ciccio Franco fu l’altra faccia della Rivolta: il leader carismatico che interpretò ed espresse i sentimenti comuni più genuini della gente e inventò lo slogan “Per Reggio Capoluogo Boia chi molla!”. Era stato già protagonista di manifestazioni per il capoluogo nel 1948 e nel 1950 e sino ad allora - al contrario di Battaglia - era stato emarginato dal grande giro della politica, anche nel suo partito.
La leadership di Franco - consolidata da mesi di carcere e soggiorno obbligato, da latitanze e processi, avvertita quindi dalla popolazione come più vicina, partecipe dei pericoli e disposta a pagare di persona le conseguenze dell’azione - convinse i vertici nazionali del MSI , divisi e titubanti nella prima fase, a sciogliere i dubbi e a gettarsi nella mischia.
Considerate le drammatiche difficoltà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale - tutti già sbilanciati per la soluzione a favore di Catanzaro e con le loro basi reggine in rivolta inaspettata - il segretario Giorgio Almirante colse l’occasione d’oro per rientrare in gioco con un ruolo di protagonista dopo decenni di ghettizzazione del suo partito. E decise di cavalcare la tigre Ciccio Franco, il quale era animato da sentimenti sinceri di difesa dei diritti della città, sincerità che corrispondeva al sentimento collettivo della comunità. Ciò non vale per Almirante, che consentì nel contempo al missino catanzarese Marini di fare il falco per la sua città. Fu lo stesso Ciccio Franco - in un’intervista concessa a La Nazione durante la latitanza - a stigmatizzare le incomprensioni col suo partito:
“ non ho avuto, né dal vertice né dalla base, sostegno alcuno nella lotta, anzi ho ricevuto diffide a sciogliere il Comitato d’Azione e a disinteressarmi dei fatti di Reggio. ... Non sono certo contento dell’azione svolta dal MSI... e sono contro ogni possibilità di ... colloquio politico con i partiti, che non sono capaci di interpretare le istanze” popolari (36).
Ciononostante, la discesa in campo del MSI al seguito di Franco alimentò la campagna sull’etichetta di destra della Rivolta. Con un duplice esito: isolò Reggio dal grosso delle forze della contestazione del ‘68 , collocate a sinistra, nonostante il tentativo fallito di intervento di Adriano Sofri con Lotta Continua; consentì ai vertici dei partiti dell’arco costituzionale la facile criminalizzazione politica di chiunque aderisse alla rivolta o manifestasse comunque un atteggiamento di comprensione per le sue buone ragioni. I Consiglieri Regionali democristiani Lupoi, Intrieri e Iacopino, il repubblicano Matacena e il socialista Canale vennero espulsi o emarginati. Il deputato democristiano Giuseppe Reale - che difese a spada tratta i diritti della città - venne punito con la bocciatura elettorale. Il sindacalista della CISL Lazzeri incontrò ostacoli insormontabili.
Numerosi militanti dei partiti di sinistra ruppero col partito o col sindacato d’appartenenza. Tanti altri strapparono le loro tessere in piazza. Altri ancora si allontanarono in silenzio o dopo aver manifestato il dissenso all’interno. Si spezzarono amicizie. Si allentarono o ruppero affetti. Si generarono rapporti di tensione e di contrapposizione in quasi tutti i nuclei familiari. Insomma ci fu - dietro la storia maggiore della Rivolta - una cronaca minore della Rivolta, vissuta intensamente nel privato e dentro le famiglie. Una cronaca di gente che non riuscì a pagare per mesi il fitto della casa o del magazzino, ”né i propri dipendenti “ e fece “fatica a tirare avanti...una pagina sconvolgente che andrebbe scritta a parte” perchè ha graffiato “a sangue tanta povera gente”(37).

1.9. FU SCONFITTA O VITTORIA?

Alla luce di una serena riflessione storica - che non può trascurare l’analisi dei rapporti tra le forze in campo - se ci fu una sconfitta essa fu quella della classe politica reggina. Se ci fu una mezza vittoria e una mezza sconfitta essa fu del Partito Trasversale Catanzarese e dei suoi super-potenti alleati cosentini.
Ma se ci fu una vittoria, essa fu certamente del popolo di Reggio. Il Davide che, di fronte ad una coalizione mille volte più potente e per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, in sette mesi aveva confermato la sua vocazione storica di popolo libero e ribelle. E aveva tenuto in scacco il Governo Nazionale, costringendolo a venire a patti e a dimezzare il contenuto di una decisione già assunta.
Gli esponenti del Partito Trasversale Catanzarese si resero conto - già nelle reazioni a caldo - di aver ottenuto una vittoria mutilata, che, considerata la concentrazione di poteri a loro favore, fu di fatto una sconfitta.Il risen-timento contro Reggio s’è affiancato ai sentimenti atavici di invidia e gelosia. Questo coacervo di ostilità s’è estrinsecato in varie forme nel corso di 28 anni: in atti e comportamenti, nella prassi del baricentrismo, nel veto sui reggini come Presidenti del Consiglio e della Giunta Regionali, nel ridimensionamento del Consiglio e della sua sede. E’ riaffiorato con particolare virulenza di fronte alla rinascita reggina degli ultimi anni.
Il popolo di Reggio in effetti aveva vinto contro tutti, ottenendo il riconoscimento delle sue ragioni con la Sede del Consiglio Regionale, la conferma di tutti gli uffici regionali esistenti nel 1970 e di qualsiasi altra sede di Enti o associazioni, l’aggregazione nel 1975 dei Tribunali di Palmi e Locri alla Sezione di Corte d’Appello come avvio della Sezione Autonoma ottenuta nel 1989, la costruzione del Porto di Gioia Tauro.
E i 10.500 posti di lavoro del Pacchetto Colombo? Se ne videro ben pochi: un centinaio e qualcosa nell’asfittico polo tessile di S. Gregorio, un altro centinaio nello scandaloso stabilimento-fantasma di Saline Joniche, monu-mento allo spreco e al ladrocinio di stato. E Gioia Tauro? E il V Centro Siderurgico sbandierato come il nuovo Eldorado alternativo al pennacchio del capoluogo? Infranto in mezzo a un mare di polemiche e recriminazioni. Per decenni quella desolata landa desertica - costruita sventrando un terreno dove si coltivavano i migliori agrumi della Calabria - rappresentò per la popolazione reggina la testimonianza più smaccata che aveva fatto bene a resistere alle Sirene. Tuttavia essa oggi guarda con orgoglio e rinnovata speranza a quell’ulteriore esito della sua stagione di lotta: se quella landa è divenuta il più grande porto-container del Mediterraneo e uno dei più grandi del mondo, il merito è stato senza dubbio della Rivolta.
Tuttavia, nel vortice delle forti passioni di quella concitata fase della loro storia i reggini non ebbero minimamente la percezione che quella conclusione compromissoria fosse stata di fatto una loro vittoria.
Lo scenario complessivo non favorì d’altronde il diffondersi di un’interpretazione in chiave positiva degli eventi. L’intervento dei cingolati e gli strascichi giudiziari cementarono nell’animo e nella mente dei reggini la sensazione di aver subito una cocente sconfitta. Con due serie aggravanti: l’isolamento politico grazie all’identificazione della Rivolta col “tentativo neo-fascista di abbattere le istituzioni dello Stato democratico”; l’amara consapevolezza dell’accerchiamento con l’ostilità di tutti.

2. LA RIVINCITA DELLA STORIA

Spesso i leaders e i partiti politici non vogliono fare i conti con le onde lunghe della storia e con le influenze che esercitano sui popoli. Oppure ritengono presuntuosamente di poterle annullare o esorcizzare col semplice esercizio cinico del potere. Invece, quando meno se le aspettano, quelle onde tornano e sconvolgono manovre occulte e patti osceni. E’ stato il caso di Reggio, della sua rivolta inaspettata, della sua rivincita di questo fine secolo.

2.1. LA “CITTA’ ATENIESE” E LA “SINDROME DA TERREMOTO”


Ridurre quella corale protesta a semplice strumentalizzazione del MSI costituì un approccio che ferì l’intelligenza, l’orgoglio e la dignità di un popolo che aveva una grande tradizione di senso dell’indipendenza e di culto della libertà. Nei suoi 2.700 anni di vita la più ateniese delle città-stato greche di Occidente s’era affermata come una comunità orgogliosa, aperta al dibattito delle idee, indocile e “ribelle”. Venne difatti sottovalutata la memoria storica collettiva. Sin dalla sua fondazione l’antica Reghion - il cui nome era collegato al mitico sprofondamento dell’istmo tra Scilla e Cariddi - aveva convissuto con distruzioni ricorrenti e devastanti provocate dagli uomini e dalla natura. Ed aveva acquisito la “sindrome da terremoto”: in pratica la capacità di sviluppare energie straordinarie per risorgere dalle macerie e vivere una nuova fase di crescita quando tutte le circostanze e gli eventi la davano per spacciata (38).
Tra i numerosi precedenti ne cito uno, particolarmente istruttivo: il tiranno Dionisio I di Siracusa , al top della sua potenza , nel 399 a.C. pretese un atto di sottomissione di Reghion tramite l’offerta in sposa della figlia di una famiglia nobile. I reggini - unici tra le pòleis della Magna Grecia e della Sicilia e sebbene consci che la loro alleata Atene, reduce dalla sua più cocente sconfitta per opera degli Spartani,non fosse in grado di aiutarli - dissero no alla tracotanza del tiranno e osarono sfidarlo con la sprezzante offerta della figlia del boia, schiavo di stato. Pagarono a caro prezzo quell’atto di sfida: dopo due attacchi rintuzzati nel 393 e nel 390, il tiranno portò l’affondo finale nel 386 con undici mesi di assedio per terra e per mare e rase la città al suolo dopo averla presa per fame (39).
Parecchi secoli dopo lo spirito dei reggini non era cambiato: nel 1445 il Re Alfonso il Magnanimo assegnò in feudo Reggio al nobile aragonese Alfonso Cardona. Quella condizione feudale durò comunque per poco: appena vent’anni, attraversati da continui atti di ribellione di una città che mal sopportava la perdita della libertà e di una radicata tradizione di autogo-verno. Nel 1462 una rivolta popolare costrinse Antonio Cardona (figlio ed erede di Alfonso) a rifugiarsi a Messina. I sindaci reggini Nicola Geria e Giacomo Foti chiesero la defenestrazione del Cardona e la reintegrazione della città nel demanio regio. Re Ferrante concesse nel 1465 - con l’assenso dello stesso Cardona che preferì tornarsene nelle sue terre dopo la traumatica esperienza reggina - la perpetua demanialità, la conferma dei privilegi municipali, l’indulto generale e particolari incentivi. Da allora nessun sovrano osò donare in feudo Reggio, né ad alcun nobile passò per la testa di chiedere un così indocile dono (40).

Anche in tempi recenti Reggio s’era confermata gelosa della sua libertà e capace di battersi per cause giuste senza alcun calcolo opportunistico:
aveva dato un rilevante contributo alla Rivoluzione Partenopea del 1799 anticipandola nel 1797 con l’attentato al Governatore. Aveva poi fornito alla causa rivoluzionaria il lucido “cervello politico” di Giuseppe Logoteta (estensore dei più rilevanti documenti politici e della Costituzione della Repubblica giacobina) e le competenze militari del generale Agamennone Spanò. E per non smentire la propensione ateniese alla dialettica dalla provincia reggina era partito il leader della controrivoluzione sanfedista, il Principe Cardinale Fabrizio Ruffo (41);
aveva anticipato - assieme a Messina, con la Rivolta del settembre 1847 - la Rivoluzione Liberale Europea del 1848 (42); aveva dato vita all’unica manifestazione di protesta di piazza contro il fascismo il 31 dicembre 1924, per esprimere dissenso contro la defenestra-zione del popolarissimo Sindaco Valentino ed i trasferimenti di alcuni uffici regionali a Catanzaro. (43). Lo stesso grande Sindaco della Ricostruzione aveva commentato: “Se potessero ci sopprimerebbero il cielo e il mare”(44). Già nelle Elezioni dell’aprile 1924 la provincia di Reggio aveva dato i più bassi consensi al Listone, scendendo nel capoluogo al 39,12 % rispetto al trionfale 76,18 complessivo della regione. Mentre nelle preferenze interne al Listone il reggino Michele Barbaro aveva umiliato il Quadrumviro Michele Bianchi col 48,91 in provincia contro il 16,59 ed il 70,75 nel capoluogo rispetto ad un misero 7,92 del capolista, ritenuto dai reggini responsabile delle sedi scippate (45); era stata protagonista di un caso raro di disinteresse della classe politica di fronte ad un sentimento collettivo: nel 1959 il suo Consiglio Comunale (con sindaco il democristiano Vittorio Barone Adesi e leader della protesta l’avvocato socialista Diego Andiloro, sindaco degli anni difficili dal ‘43 al ‘46) si era dimesso contro il rifiuto del Governo di accorpare i Tribunali di Palmi e di Locri (provvisoriamente aggregati a Catanzaro) alla Sezione di Corte d’Appello di Reggio (46).
Della prima distruzione di Dionisio I sono oggi testimonianza le Mura Greche della Via Marina, erette durante quegli anni e ricostruite dopo il tempestivo ritorno all’indipendenza. Sono tornate alla luce grazie all’archeologo trentino Paolo Orsi - Soprintendente Archeologico a Reggio per Calabria e Lucania - scavando tra le macerie dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. Si trattò dell’ultima e più catastrofica distruzione, con Reggio e Messina e le altre cittadine dell’Area dello Stretto rase al suolo e la quota di 40.000 morti sulla sola sponda calabrese (47). I reggini vi risposero ricostruendo ancora una volta nell’antico sito di Reghion la città più bella di prima. Dopo vivaci discussioni alla fine decisero saggiamente di rispettare l’idea progettuale e l’impianto urbanistico di chiara impronta illuministica del Piano Regolatore redatto dall’ingegnere borbonico Giambattista Mori dopo il precedente terremoto di Reggio e Messina del 1783 (48).
Il sindaco Giuseppe Valentino, il ministro Giuseppe De Nava ed il progettista Pietro De Nava furono i tre leaders della ricostruzione, cui partecipò coralmente l’intera cittadinanza superstite (49). Apportarono un qualificato contributo umano e materiale gli interventi di associazioni laiche e religiose, tra cui spiccarono le figure di Umberto Zanotti Bianco - fondatore dell’ANIMI-Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno (50) - e di Don Luigi Orione - fondatore dell’Opera Antoniana delle Calabrie, oggi Opera Don Orione (51). Gioiello della felice ricostruzione fu la Via Marina, il cui scenario inimitabile con lo sfondo della Sicilia e dell’Etna venne arricchito di una vegetazione proveniente da tutti continenti, con un unico neo: l’assenza delle piante autoctone, primo fra tutti il Bergamotto. A dare gli ultimi ritocchi pensò il primo Podestà Ammiraglio Marchese Giuseppe Genoese Zerbi, che alla fine degli Anni Trenta realizzò opere di largo respiro che riuscirono a proiettare la città al livello dei migliori esempi di moderna amministrazione. Nacque il primo Lido del Mezzogiorno d’Italia (ispirato agli stabilimenti balneari di Venezia, Rimini e Viareggio) e venne varato il Progetto della Grande Reggio tramite l’aggregazione dei Comuni confinanti dalla sponda dello Stretto al Monte Basilicò di Gambarie d’Aspromonte (52).

2.2. IL TEMPO DELLA RASSEGNAZIONE e LA “REGIONE STRANIERA”

La reazione a caldo di Reggio nel primo appuntamento con le urne - le elezioni politiche del 1972 - fu quella di accettare la sfida di tutti coloro che l’avevano definita una specie di covo di “fascisti e teppisti”. Gli elettori reggini riversarono difatti una messe eccezionale di voti sul Movimento Sociale Italiano facendolo balzare dal 9,2 del 1968 al 36,2 % . Mentre al Senato il duello fra i due leaders della Rivolta si risolse a favore di Ciccio Franco, nonostante il notevole successo di Pietro Battaglia rispetto al calo del 12,8 % della DC, non sufficente comunque a fare scattare il seggio.
Venne poi il tempo della rassegnazione e della sfiducia, con l’assuefa-zione passiva alla politica del voto di favore e di scambio nelle amministra- zioni locali. Si diffusero atteggiamenti al confine del nichilismo, terreno fertile per fare prosperare tutti i luoghi comuni più fatalistici e auto-distruttivi dell’armamentario meridionale del pessimismo e del vittimismo.
Approfittarono di tale rilassamento gli esponenti del Partito Trasversale Catanzarese, per parte loro profondamente delusi della mutilazione dello scippo del capoluogo. Avendo dovuto digerire a malincuore il “Compromesso Colombo del Doppio Capoluogo”, fecero di tutto per recuperare rispetto alla Vittoria ottenuta dalla Rivolta Popolare. Vittoria che non fu percepita nella sua potenzialità positiva dalla classe dirigente reggina. Conscia della sua sconfitta, preoccupata di mostrarsi moderna, aperta e non retrograda, paralizzata dal ricatto psicologico della possibile accusa di campanilismo, essa avvantaggiò l’azione di recupero con atteggiamenti remissivi. Si fece pertanto imporre le scelte più assurde e scriteriate e consentì un lento processo di spoliazione senza batter ciglio. Salvo qualche sporadico tenta-tivo, puntualmente zittito col ricatto “Vuoi forse fare il Boia chi molla?”
Accadde così che dalla metà degli Anni Settanta alla fine degli Anni Ottanta Reggio venne sottoposta ad una lenta ma continua razzìa di Uffici e sedi regionali in un clima di indifferente rassegnazione della popolazione e di complice silenzio della loro classe dirigente, peraltro in barba al Compromesso del ‘71 che garantiva la permanenza degli Uffici regionali o di Sedi regionali laddove si trovavano. Nel nome del “regionalismo” e di fatto con uno spirito campanilistico miope ed esasperato venne condotta un’azione sistematica che si proponeva di completare lo scippo e perseguiva la strategia della debàcle definitiva di Reggio (53).

Tale strategia s’è esplicata per oltre vent’anni in tante direzioni:
a) nonostante lo Statuto della Regione avesse assegnato un ruolo centrale e primario al Consiglio ed alle Commissioni Consiliari, s’è fatto di tutto per sminuire e svuotare tali ruoli. L’intento era il ridimensionamento del ruolo di Reggio. Non dargliela comunque per vinta. Tant’è vero che è stata imposta imposta la prassi , accolta da tutti i partiti e sindacati, che le riunioni regionali - anche quelle che coinvolgevano i Consiglieri Regionali - si svolgessero sull’asse del baricentro regionale Catanzaro-Lamezia. Nessuno s’è sognato di obiettare che in Sicilia non s’è mai posto il problema - nè per il capoluogo nè per altri compiti o servizi regionali - di Enna o in Sardegna di Nuoro o in Friuli di Pordenone soltanto perché sono i baricentri di quelle regioni;
b) ricorrendo allo stesso alibi del baricentrismo sono stati attuati alcuni colpi di mano, come la creazione sempre a Lamezia - nonostante la sede Compartimentale della Calabria fosse a Reggio - della Sezione Arrivi e Transiti delle Poste con l’annesso Volo Postale Notturno. Tali decisioni hanno comportato alcuni indotti: un vantaggio per il Servizio dei Voli Charter, favorito dall’apertura notturna dell’Aeroporto (l’H24); la dislocazione a Lamezia della maggioranza delle Agenzie di Trasporti e dei Corrieri Nazionali e Internazionali. Un caso emblematico di quanto fosse falsa la motivazione del baricentrismo è costituito dal Centro Regionale Meccanizzato delle Poste, assegnato anch’esso politicamente a Lametia col solito alibi. Ma è stato costruito a S. Pietro Lametino, in aperta campagna e fuori mano sia rispetto all’Autostrada che alla Ferrovia. Una Cattedrale nel deserto con enormi capannoni vuoti e inutilizzabili, voluta da un Sottosegretario non per rendere un servizio più efficente ma soltanto per soddisfare una voglia campanilistica smodata. Mentre il cargo del Volo Postale Notturno è stato spesso zavorrato di sabbia per poter decollare;
c) la pretesa arrogante e insensata - tuttora perseguita con perseveranza e fondato sulla baricentricità imposta tramite l’occupazione catanzarese-lametina del Sottogretariato ai Trasporti in numerosi Governi - di fare dell’Aeroporto di Lamezia Terme l’unico scalo regionale tramite la soppressione del S. Anna di Crotone e la spoliazione dell’Aeroporto reggino dello Stretto. Centinaia di miliardi investiti, favoritismi, pressioni e interventi politici sulla Compagnia di bandiera e su altre sono stati e sono i mezzi per realizzare tale obiettivo;
d) il completamento e l’entrata in funzione del Palazzo del Consiglio Regionale di Reggio hanno subito una serie incredibile di rinvii, impedendo sinora la piena funzionalità della sede reggina della Regione. Mentre sono stati accelerati e stanno procedendo a ritmo intenso i lavori per la Citta- della della Regione a Germaneto di Catanzaro;
e) s’è affermata una legge non scritta secondo cui la Presidenza della Giunta e la Presidenza del Consiglio sono state di fatto vietate ai reggini. Come se fosse un’espiazione per il grave atto di lesa maestà della Rivolta. Soltanto nella traballante legislatura in corso è stato rotto - dopo ben 25 anni dall’istituzione della Regione - il tabù della Presidenza del Consiglio con l’elezione di Giuseppe Scopelliti di AN.
L’aggressività del Partito Trasversale s’è intensificata negli ultimi anni. Si può arguire che la tendenza parossistica a fare quadrato attorno al ruolo di capoluogo - già incattivita dall’incapacità di esercitare la leadership, cosa ben diversa dalla pretesa - sia stata acuita dalla duplice mutilazione delle due nuove province di Crotone e Vibo Valentia. Nei cui confronti, d’altronde, si sono verificati episodi eclatanti di velenosa ostilità. In sostanza, per recuperare gli effetti della vittoria popolare della Rivolta, il nuovo istituto - grazie alla convergenza tra la remissività reggina e la crescente aggressività catanzarese - ha assunto sempre più le sembianze, per la provincia di Reggio, di una “Regione Straniera”.

2.3 IL RITORNO DELLA “SINDROME”

L’ennesima miracolosa ed inaspettata rinascita di Reggio dalle macerie ha giocato senz’altro la sua parte nell’alimentare la crescente aggressività del Partito Trasversale e la palese ostilità della “Regione Straniera”.
Infatti l’allenamento dei reggini ai disastri e alle ricostruzioni pian piano ha preso il sopravvento. La parte più attiva della società civile ha dato i primi segnali della riscossa già verso la fine degli Anni Settanta, che hanno visto la nascita di alcune realtà associative protagoniste tuttora della vita cittadina. Sono arrivati così - dapprima in maniera impercettibile e poi con sempre maggiore intensità sino ad un vorticoso succedersi di iniziative in questo esaltante ultimo scorcio di millennio - gli anni del riscatto, della ritrovata voglia di misurarsi e vincere, della ripresa piena del dinamismo culturale, della creatività artistica e dell’iniziativa economica e sociale.
Un nuovo clima s’è diffuso nelle amministrazioni locali. I ceti dirigenti hanno interpretato i fermenti della società e hanno abbandonato atteg-giamenti di gestione del giorno per giorno per operare su prospettive di più ampio respiro strategico.
Certo, resistono ancora sacche del tradizionale pessimismo e di deleterio fatalismo, che riemergono specie nei momenti più difficili. Qualcuno si attarda in schermaglie polemiche e inconcludenti. Qualcun altro si dilunga ancora in citazioni disfattiste e vittimistiche, sottovalutando le potenzialità locali. Altri ancora insistono in atteggiamenti di esasperato individualismo che arriva a negare qualsiasi merito agli altri e a considerare soltanto i propri. Prevale tuttavia una propensione a promuovere e organizzare iniziative che si proiettano all’esterno, puntando su livelli qualitativi sempre più elevati.
In campo culturale la pietra più preziosa è il Museo Nazionale della Magna Grecia. Considerato uno dei più importanti d’Italia e del mondo fu voluto negli Anni Venti con caparbia insistenza dal grande archeologo trentino Paolo Orsi - Soprintendente Archeologico a Reggio per la Calabria e la Lucania per oltre vent’anni - e realizzato grazie al tenace e intelligente apporto del più grande reggino di adozione del ‘900: il meridionalista anglo-piemontese Umberto Zanotti Bianco. La stupenda costruzione pro-gettata da Marcello Piacentini ospita oggi un Museo che è l’unico al mondo a possedere quattro capolavori della bronzistica greca classica: i due Bronzi di Riace, il filosofo di Porticello ed il suo gemello(54). E’ quasi un’ideale conferma del primato di quella “bottega di scultura in bronzo” di Clearco e del suo allievo Pitagora di Reggio che ai tempi di Reghion era la più rinomata dei Greci d’Occidente (55). Al Museo Nazionale - che contiene tanti altri capolavori di diverse epoche - si sono affiancate nella città e nella Provincia numerose altre iniziative che hanno creato i presupposti di un circuito culturale museale articolato e di alto profilo (56).
S’è nel contempo radicata nel tessuto socio-economico-culturale - grazie al Rettore Rosario Pietropaolo - l’Università degli Studi . Nata prima del ‘70 per merito di un Consorzio promosso dall’on. Giuseppe Reale, è stata faticosamente sviluppata dopo la Rivolta ed oggi rappresenta un’altra realizzazione che ha concorso alla rinascita, con le Facoltà di Architettura, Ingegneria ed Agraria nelle nuove moderne strutture di Feo di Vito, mentre è stato aperto il Corso di Giurisprudenza. Completano lo scenario isti-tuzionale l’Accademia di Belle Arti - prima in Calabria e proiettata nell’Area dello Stretto -, il Conservatorio Musicale Cilea con la prospettata nuova sede a due passi dal Museo Nazionale, la Biblioteca De Nava - in un’elegante palazzina liberty - e la Biblioteca Comunale in fase di ristrutturazione.

2.4. IL TEMPO DELLA RIVINCITA

I fermenti culturali non si limitano comunque all’aspetto istituzionale. Sono molteplici le iniziative private, con alcune punte di diamante: l’Università per Stranieri “Dante Alighieri”, un’idea dell’on. Giuseppe Reale, rivelatasi vincente perché ha potenziato la vocazione storica dell’Area dello Stretto come crocevia e punto d’incontro tra culture diverse e lontane; il Circolo Rhegium Julii col suo prestigioso Premio Letterario omonimo e i Caffè Letterari estivi; il Centro Studi Bosio con i suoi quattro Progetti Prioritari (Premio Plurilinguistico e Multimediale di Poesia Nosside - unico aperto a tutte le lingue comprese le minoritarie, e a tutte le forme di comunicazione , scrittura, video, computer, musica -, “Bergamotto OroVerde di Reggio Calabria” - iniziative per la valorizzazione del prezioso agrume reggino -, “Premi Sud Zanotti Bianco” - per chi è rimasto, è venuto, è tornato ed ha realizzato “storie vincenti”-, Corso di Cultura Politica “Pitagora 2000”); il Circolo Anassilaos, con gli omonimi Premi e il Progetto Europa; il Teatro Calabria di Rodolfo Chirico, che ha il merito di aver diffuso una radicata cultura teatrale; il Circolo Cinema Chaplin, che ha svolto un compito simile nel campo della cultura cinematografica, grazie anche al suo indimenticabile Presidente Sebastiano Di Marco, prematuramente scomparso; l’Associazione Culturale Jonica di Roccella Jonica, presieduta da Sisinio Zito e organizza- trice di uno dei più prestigiosi Festival Internazionali del Jazz.
Anche nel campo della solidarietà sono nate alla fine degli Anni Settanta almeno tre iniziative di alto spessore: la Cooperativa Servizi Sociali “Agape” diretta da Mario Nasone; il CRIC - Centro Regionale d’Intervento per la Cooperazione - diretto da Tonino Perna e attivo in America Latina, Medio Oriente, Bosnia, Albania, Eritrea; la Fondazione Lucianum, fondata e diretta da Don Domenico Gerace. Nel settore ambientalista si sono affermate realtà associative locali che non sono da meno delle rappresen-tanze di centrali nazionali (Legambiente, CAI, Italia Nostra, Kronos, Club Unesco): Associazione Gente in Aspromonte, GEA-Gruppo Escursionisti Aspromonte, Club Aics Gambarie.
Al fianco di queste solide realtà pullulano una miriade di Circoli, Associazioni, Cooperative Sociali che animano la vita culturale, civile e sociale della città , confermandone l’ateniesità e facendone uno dei centri più dinamici e pluralistici del Sud e dell’intero Paese. Non è un caso che Reggio e la sua provincia - sulla scia della tradizione magnogreca di poeti come Ibico Reggino, il più grande poeta d’amore dell’antichità, Senòcrito e Nosside di Locri e Stesicoro di Metauro (Gioa Tauro) (57) - abbiano dato alla letteratura nazionale e internazionale i maggiori scrittori calabresi del ‘900: Corrado Alvaro, Luigi Perri, Leonida Repaci, Giovanna Gullì, Fortunato Seminara, Mario Lacava, Antonio Altomonte e Saverio Strati. Non è un caso che il primo critico letterario del mondo sia stato il reggino Teàgene che curò la prima edizione critica dell’Iliade e dell’Odissea di Omero, e che sia stato Zaleuco di Locri il primo legislatore (58). E non è un caso che abbiano dato i natali agli unici storici della Magna Grecia (Ippi e Lico), iniziatori di una prestigiosa scuola di storici che ha annoverato in questo secolo Gaetano Cingari, Rosario e Lucio Villari, Ferdinando Cordova, Domenico De Giorgio.
Non è meno vivace la creatività artistica e musicale. Reggio ha aperto il ‘900 con personalità di valore mondiale come il musicista palmese Francesco Cilea e il pittore futurista reggino Umberto Boccioni . E lo ha chiuso col genio della moda Gianni Versace. Nelle svariate pubblicazioni sulle personalità più illustri del mondo nel XX Secolo Boccioni e Versace non mancano mai. E sono le uniche presenze calabresi.

Nello sport Reggio ha nel PalaPentimele il terzo Palazzetto d’Italia e rappresenta la massima espressione della Calabria nel Calcio con la Reggina (affiancata dal Cosenza), nella Pallavolo femminile con la Medinex, nel Calcio a cinque con la Thermax e nel Torball. Vanta altresì società storiche come lo Sporting Club , la Fortitudo 1903, il Circolo Tennis Polimeni e il Circolo Velico, nonché realtà associative leaders nel Sud, come il Comitato Provinciale AICS.
Ha rappresentato infine per diversi anni l’unica presenza del Sud nella Serie A-1 del Basket maschile con la “Viola”, che ha appena superato la sua più grave crisi e disputerà la prossima Serie A-2: alla vigilia del Natale ‘97 era data per spacciata; ma senza fare i conti con la famosa “sindrome“ dei reggini, che già era stata saggiata negli Anni Settanta con una storia analoga che s’era risolta col salvataggio della Reggina.
E’ nato spontaneamente il Comitato “Il Mito Viola vive!” presieduto dal sottoscritto con al fianco Arturo Stella e Giuse Barrile. Nel corso di quindici frenetiche giornate e nottate (compresa quella del Capodanno, festeggiata in piazza assieme al coach Gaetano Gebbia ed ai giocatori) Reggio ha sorpreso tutti, capovolgendo qualsiasi ipotesi logica. La Roulotte del Mito - collocata nell’Agorà-Piazza Italia dai giovani del Comitato che vi hanno raccolto 20.000 firme di un Appello Popolare - è stata il simbolo della resistenza ed il centro di aggregazione e propulsione della città, che s’è stretta attorno alla figlia prediletta in pericolo. Sono stati superati gli steccati della politica (tutti uniti, dal Sindaco Italo Falcomatà dell’Ulivo al Presidente della Provincia Umberto Pirilli del Polo, dal Presidente del Consiglio Regionale Giuseppe Scopelliti di AN all’impegno del numero due nazionale del PDS, il reggino Marco Minniti). S’è fatto ricorso a energie interne e sono stati attratti solidali e concreti sostegni all’esterno. E - tra i commenti entusiastici di chi li ama e ne apprezza le doti creative e le reazioni stizzite di chi nutre sentimenti di gelosa invidia e ne soffre - s’è compiuto l’ultimo atto dell’ennesimo recupero in extremis, su quel drammatico filo di lana di cui i reggini non possono fare a meno: l’intervento risolutore dell’industriale romano Tonino Angelucci e del reggino Santo Versace, Presidente della Gianni Versace SpA ed ex-play e capitano della squadra negli anni giovanili, efficacemente rappresentati a Reggio da Carlo Casile. Passato repentina-mente da una riservata attività di commercialista alle luci della ribalta, Casile ha pilotato con perizia e fermezza la delicata fase di transizione dal fallimento della vecchia Viola alla nascita della Nuova Viola, “destinata - sono parole di Santo Versace - a portare la Magna Grecia in Europa”.
Anche l’Aeroporto dello Stretto - baricentro di un’area d’utenza di oltre un milione di abitanti comprendente Messina, e tuttavia spoliato, declassato, lasciato senza mezzi, privo di finanziamenti e boicottato per favorire smaccatamente lo scalo del Baricentro calabrese Lamezia - nel 1993 sembrava tagliato fuori e avviato alla chiusura. Il sindaco Giuseppe Reale nominò una task-force formata da Aurelio Chizzoniti e dal Generale Pata. Sei mesi dopo il nuovo sindaco Italo Falcomatà confermò la scelta. Ne venne fuori un’altra “storia vincente” . Oggi lo scalo reggino è quello che ha avuto il più elevato tasso di sviluppo in Europa ed è destinato a raggiungere livelli di traffico da primato col collegamento diretto via mare con Messina, Taormina e le Isole Eolie. Forse proprio per questi motivi è in corso un attacco concentrico del Partito Trasversale che ha pochi precedenti per la sua virulenza. Ciononostante Reggio ha reagito sinora poco, soltanto con Chizzoniti e il Centro Studi Bosio. Evidentemente il trend positivo del traffico non fa intravedere i pericoli e non ha fatto ancora scattare la “Sindrome”.
Ultima storia vincente è quella del Bergamotto, il prezioso agrume unico al mondo che fruttifica nella fascia costiera reggina da Scilla a Marina di Gioiosa Jonica. Ricchezza inestimabile perchè indispensabile nell’arte profumiera, prodigioso nella farmaceutica, in grado di dare un gusto inimitabile a dolci, gelati e altre pietanze. Dal 1750 ha costituito la risorsa più redditizia dell’economia provinciale, sviluppando grandi professionalità nella lavorazione con i Mastri Spiritari e alimentando la creatività tramite l’invenzione di macchine sempre più sofisticate per l’estrazione dell’essenza. Tuttavia è mancata la realizzazione completa del ciclo economico, fermatosi alle soglie dell’utilizzazione dell’essenza: s’è preferita la via - certamente positiva per le famiglie proprietarie, le fabbriche di essenza e le Aziende di esportazione reggine, messinesi e straniere - di vendere l’essenza agli altri, ai profumieri francesi in particolare, facendone la loro fortuna.
Negli Anni Sessanta la produzione e la vendita dell’essenza hanno inoltre subito gli effetti devastanti dell’avvento dell’essenza sintetica, con l’annessa campa-gna di stampa su una supposta cancerogenità dell’essenza naturale. La falsità della campagna fu ampiamente testimoniata da un prestigioso Comitato Scientifico Internazionale di Difesa composto dagli scienziati Louis Dubertret, Angelo Di Giacomo, Paul Forlot e Averbeck e sostenuto dal Sindacato Profumieri Francesi.
Dal 1994 è partita infine una campagna di sensibilizzazione grazie a iniziative assunte da un’associazione culturale non-profit (il Centro Studi Bosio col suo Progetto Bergamotto OroVerde di Reggio), da un’azienda privata (la Solmar produttrice del liquore Bergamino) e da un Ente Istituzionale (il Consorzio del Bergamotto col progetto dell’Istituto Superiore di Profumeria con annesso il Museo di Archeologia Industriale del Bergamotto, elaborato dal Commissario Francesco Crispo, fatto proprio dal Sindaco Falcomatà e approvato di recente dal Governo).
S’è così fatta strada la consapevolezza che questa ricchezza inestimabile possa essere valorizzata come mai in precedenza. Un Comitato Organizzatore presieduto da Francesco Crispo e diretto da Jean Claude Ast (Presidente dell’AICS) ed un Comitato Scientifico guidato da scienziati di valore mondiale (l’americano Fitzpatrick e il francese Forlot) stanno preparando un Convegno Internazionale con l’ausilio del Comune sui diversi usi del Bergamotto. Nel frattempo il Centro Studi Bosio ha invitato i cittadini a firmare le loro corrispondenze con la dicitura “Reggio-Città del Bergamotto”. La reazione dei reggini non s’è fatta attendere, facendo scattare una catena di adesioni foriera di un’ennesima storia vincente.

2.5. IL CAPOLUOGO MORALE

Pertanto, ancora una volta l’onda di lunga durata della storia s’è presa la rivincita. Mentre altri annaspano nel tentativo disperato di tramutare un capoluogo burocratico scippato in capoluogo di fatto e tentano tuttora di stroncare ogni cosa positiva che si affermi nella provincia reggina, la città dello Stretto ha inanellato una serie impensabile di “storie vincenti”.
La vitalità di Reggio e della sua provincia - temprate nei millenni da eventi distruttivi sempre superati - è talmente pregnante che nessuno scippo di uffici è riuscito a scalfirla. La sua magica atmosfera richiama - dalla montagna di Gambarie al fantastico scenario dello Stretto, tra la Rocca di Scilla e la Via Marina - i più affascinanti miti mediterranei. Dai tempi della “bottega di Clearco” ha attratto i grandi viaggiatori stranieri , affascinati dal paesaggio e conquistati dalla straordinaria scia profumata di agrumeti e bergamotteti che - superata la rocca di Scilla - li accompagnava sino a Santa Caterina, ingresso a Nord del Centro Storico, e ripartiva da Sbarre verso Sud. Ha ispirato Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli, Paolo Orsi e Umberto Zanotti Bianco, che se ne sono innamorati. Ed ha influenzato la formazione di suoi eccelsi artisti come Umberto Boccioni e Gianni Versace. Il genio della moda ha mirabilmente espresso in poche parole la magia ispiratrice della propria città: “Ciò che ha reso la mia vita speciale è stato crescere a Reggio, nella Magna Grecia...”. I fratelli Santo e Donatella hanno tradotto il suo sentimento nell’istituzione della “Fondazione Gianni Versace”. Una decisione destinata a potenziare ulteriormente la tradizionale proiezione internazionale della città.
A 28 anni dal proprio 14 luglio la città più antica, più grande, più ricca di fermenti culturali e artistici e più importante della regione si avvia quindi a raggiungere l’Anno Duemila come Anno 2.730 della sua lunga storia con l’ identità di Città del Bergamotto e una sicura leadership che la conferma come capoluogo storico e la potenzia come capoluogo morale.
E’ la rivincita della storia - soprattutto quella di lunga durata - che può essere talvolta fermata temporaneamente da circostanze avverse o predata da atti umani. Ma prevale sempre nel lungo periodo sulla cronaca spicciola degli eventi immediati, perchè ha la forza della memoria collettiva propria e degli altri. Quella memoria che crea e alimenta le civiltà.

APPENDICE

NOTE

  1. Alfonso Madeo,  Corriere della Sera, 2-8-1970.
  2. Egidio Sterpa,  Corriere della Sera, 18-9-1970.
  3. Egidio Sterpa,  Corriere della Sera, 24-9-1970.
  4. Alfonso Madeo, Corriere della Sera, 12-10-1970.
  5. Egidio Sterpa,  Corriere della Sera, 24-9-1970.
  6. Virgilio Celletti,  Avvenire, 16-10-1970.
  7. Francesco Fornari ,  La Stampa, 16-10-1970.
  8. Egidio Sterpa,  Corriere della Sera, 24-9-1970.
  9. Giancesare Flesca, L’Astrolabio, luglio 1970.
  10. Valentino Parlato,  Il Manifesto, ottobre 1970.
  11. Cfr. Luigi Malafarina, Franco Bruno, Santo Strati, Buio a Reggio, Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria, 1971. E’ il  contributo più completo sulla Rivolta,   prezioso e indispensa-bile per ricostruire una parte di storia di rilevante importanza per chi vuole approfondire la comprensione dell’Italia Repubblicana.
  12. Ivi, p. 496. Anche in Gazzetta del Sud, 14-1-1971.
  13. Ivi, pp. 496/498.
  14. Franco Pierini,  Il giorno,  31-1-1971. Bruno Tucci, Il Messaggero, 31-1-1971.                 Alfonso Madeo, Corriere della Sera, 31-1-1971
  15. Franco Pierini, Il Giorno, 8-2-1971. Anche in Malafarina-Bruno-Strati, Buio a Reggio,      cit., pp. 585/588.
  16. Franco Papitto, Il Fiorino, 8-2-1971.
  17. Alfonso Madeo, Corriere della Sera, 27-1-1971
  18. Malafarina-Bruno-Strati, Buio a Reggio, cit., pp. 605/606.
  19. Ivi, p. 609.
  20. Ivi, p. 607.
  21. Ivi, p. 600.
  22. Alfonso Madeo,  Corriere della Sera, 17-2-1971.
  23. Malafarina-Bruno-Strati, Buio a Reggio, cit., p. 615.
  24. Francobaldo Chiocci, Il Tempo, 3-2-1971
  25. Malafarina-Bruno-Strati, Buio a Reggio, cit., pp. 540/542.
  26. Ivi, p. 545.
  27. Giampaolo Pansa, La Stampa, 17-2-1971.
  28. Giampaolo Pansa, La Stampa, 18-2-1971.
  29. Mario Cartoni, Il Resto del Carlino, 23-2-1971.
  30. Alfonso Madeo,  Corriere della Sera, 23-2-1971.
  31. Alfonso Madeo,  Corriere della Sera, 19-2-1971.
  32. Alfonso Madeo,  Corriere della Sera, 1-8-1970.
  33. Egidio Sterpa,  Corriere della Sera, 17-9-1970.
  34. Egidio Sterpa,  Corriere della Sera, 24-9-1970.
  35. Aldo Sgroj, La Rivolta di Reggio vent’anni dopo, Reggio Calabria,  Gangemi Editore,  1991, Testimonianza di Battaglia,  pp. 285/289.
  36. Livio Visconti, Intervista a Ciccio Franco, La Nazione, 9-2-1971.
  37. Silvestro Prestifilippo, La Gazzetta del Mezzogiorno, 13-2-1971.
  38. Cfr. Lo Stretto crocevia di culture, Atti del Ventiseiesimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto-Reggio Calabria, 9-14 ottobre 1986, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia - Taranto, 1987.
  39. Pasquale Amato, Il Teorema di Pitagora. Politica e partiti nella polis,  Roma, Il Ventaglio, 1993, pp. 52/53.
  40. Franco Mosino e Giuseppe Caridi, Il Medioevo tra bizantini e aragonesi,  in Fulvio Mazza (a cura di), Reggio Calabria.Storia, cultura,economia, Collana della Banca Popolare di Crotone Le città della Calabria, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 1993, pp. 135/137.
  41. Cfr. Gaetano Cingari, Giacobini e Sanfedisti in Calabria nel 1799, RMessina-Firenze, D’Anna, 1957.
  42. Cfr. Domenuco De Giorgio, Figure e momenti del Risorgimento in Calabria, Messina, Ed. Peloritana, 1971.
  43. Gaetano Cingari, Reggio Calabria, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 286-296. Anche in  Fausto Cozzetto, L’età contemporanea, in Fulvio Mazza (a cura di), Reggio Calabria..., cit.., pp. 246/248.
  44. Italo Falcomatà, L’Ammiraglio Genoese Zerbi Commissario Prefettizio, in “Historica”, a. XLII, Gennaio-marzo, n. 1, 1989, p. 13.
  45. Gaetano Cingari, Reggio Calabria, cit.,  pp. 288-291.
  46. Ivi, p. 386.
  47. Ivi, pp. 193/205.
  48. Gustavo Valente, Dalle incursioni turchesche all’età giacobina, in Fulvio Mazza (a cura di), Reggio Calabria..., cit.., pp. 180/182. Anche in Domenico Spanò Bolani, Storia di Reggio Calabria, ed. curata da Domenico De giorgio, Reggio Calabria, Lavoce di Calabria, 1957, II, pp. 161/166.
  49. Gaetano Cingari, Reggio Calabria, cit.,  pp. 261/271
  50. Cfr. Pasquale Amato, Zanotti Binco e l’associazionismo democratico nel Mezzogiorno  (1910/1963),  in Pasquale Amato (a cura di), Umberto Zanotti Bianco meridionalista militante, Venezia, Marsilio, 1981; Umberto Zanotti Bianco, L’ANIMI nei suoi primi cinquant’anni di vita, Roma, Collezione Meridionale Editrice, 1960; AA.VV., Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), Roma, ANIMI, 1980.
  51. Cfr. Giuseppe Caruso, La costellazione “Orione” a Reggio 1908 - 1996, Reggio Calabria, Jason Editrice, 1996.
  52. Gaetano Cingari, Reggio Calabria, cit.,  pp. 297-306. Cfr. anche Italo Falcomatà, L’Ammiraglio Genoese Zerbi Commissario Prefettizio, cit.
  53. Filippo Aliquò-Taverriti, Reggio è il Capoluogo della Calabria, Reggio Calabria, Editr. Corriere di Reggio,  1970, pp. 35/37. L’autore precisa che “tutte le volte che il Governo ha voluto istituire uffici regionali nel capoluogo della regione, li ha destinati esclusivamente a Reggio”. Ed elenca gli ultimi in ordine di tempo sino al ‘70: Legge  19 marzo 1949-Ispettorato Regionale delle Foreste; DPR 19 marzo 1955-Ispettorato Regionale del Lavoro; Legge 22 luglio 1968-Ufficio Regionale del Lavoro e della Massima Occupazione; Legge 12 febbraio 1968-Comitato Regionale per la programmazione ospedaliera; Decreto Min Sanità 24 marzo 1970-Comitato Regionale contro l’inquinamento atmosferico. Di grande interesse è l’elenco di tutti gli altri Uffici regionali esistenti a Reggio nel 1970 (Cfr. Appendice).                                                                             
  54. Cfr. (a cura di Elena Lattanzi), Il Museo Nazionale di Reggio Calabria, Roma, Gangemi Editore, 1988.
  55. Cfr. Alfonso De Franciscis, Pitagora di Reggio, Reggio Calabria, Parallelo 38, Collana “Calabresi nel tempo”, 1986.
  56. Fanno parte di questo Circuito ideale: a Reggio  Museo San Paolo,  Museo dello Strumento Musicale,  Museo della Seta, Museo della Biologia Marina,  Museo del Presepe, Museo del Bergamotto, Museo Parco della Civiltà contadina, Museo Diocesano (prossima apertura); a Palmi  (Casa della Cultura) Museo Etnografico, Museo Archelogico, Museo Guerrisi, Museo Cilea, Museo Manfroce, Pinacoteca Repaci; a Cittanova Museo Civico Storia Naturale; a Polistena Museo Civico; a Rosarno Museo Archeologico; Bova Superiore Museo Paleonto-grafico dell’Arte Contadina; a Gerace Museo Diocesano di Arte Bizantina; a Locri Antiquarium Archeologico; a Mammola Museo d’Arte Moderna. La Provincia ha deciso di istituire un Museo dell’Arte della Pesca nel Castello Emmarita di Bagnara, mentre il Comune di Reggio ha deciso di ricostituire il Museo Civico che potrebbe essere intestato ai due grandi artisti mondiali di Reggio Calabria Gianni Versace e Umberto Boccioni.
  57. Cfr .Marcello Gigante, Profilo di una storia letteraria della Magna Grecia, in AA. VV. (a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Magna Grecia, Milano, Electa, 1988, III, pp. 259/284.
  58. Cfr., Giovanni Pugliese Carratelli, Primordi della legislazione scritta,, in AA. VV. (a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Magna Grecia, cit. , II, pp. 99/102.
  59. Cfr. Luigi Tallarico, Umberto Boccioni, Reggio Calabria, Parallelo 38, 1985; Gino Agnese, Vita di Boccioni, Firenze, Camunia, 1996.
  60. Cfr. Roberto Alessi (a cura di), Versace eleganza di vita, Milano, Rusconi, 1990

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