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27 mar
Pasquale Amato _ Storia Globale _ Visualizzazioni: 57775

Pasquale Amato - BERGAMOTTO DI REGGIO CALABRIA. UNA STORIA CHE PROFUMA IL MONDO

Pasquale Amato - BERGAMOTTO DI REGGIO CALABRIA. UNA STORIA CHE PROFUMA IL MONDO

(Articolo pubblicato con lo stesso titolo nel n. 3 della Rivista Mensile internazionale  "MedAtlantic", Roma, Primavera 2022, pp. 54-66) 

Il viaggiatore inglese Edward Lear, sbarcato a Reggio il 25 luglio 1847, percorse per oltre un mese a piedi buona parte della provincia reggina. Rimase affascinato da Scilla che scintillava “sulla rocca”, dal “maestoso Aspromonte coronato dalle nubi”, dalle “scogliere perlacee di Bagnara”, dalla montagna di Pentedattilo e dai borghi di Bova e Gerace. E Reggio gli apparve come “un immenso giardino…un luogo di tali delizie, come credo ne esistano pochi altri sulla terra”. In quel giardino agrumi, ulivi, gelsi, viti e piante aromatiche fondevano i loro profumi con l’onda lunga dei miti (Scilla e Cariddi e la Fata Morgana su tutti) e con la storia di una terra che aveva dato il nome all’Italia.   In quel giardino - in un giorno misterioso avvolto nella leggenda - s’era verificato un miracolo della natura: tra le distese di aranci, mandarini, limoni, cedri era nato - per un innesto casuale favorito dal microclima e dal terreno - un albero di qualità straordinarie appartenente alla famiglia degli agrumi, ma con le loro caratteristiche positive moltiplicate a dismisura. Basti pensare che le sue componenti chimiche sinora accertate sono ben 350. L’albero era alto da 3 a 4 metri, aveva foglie ovali arrotondate di colore verde scuro e produceva un frutto color giallo limone, di dimensioni leggermente inferiori a quelle di un’arancia.

Anche il nome sapeva di mistero: “bergamotto”.  Su di esso sono rimaste in piedi due sole ipotesi logiche, entrambe connesse all’origine autoctona: se l’origine è nell’antichità mediterranea potrebbe derivare da “pergamena” e “motta”, quindi “difesa della pergamena” per la conservazione dei libri; se viceversa lo si fa risalire a tempi più recenti il nome proverrebbe dal turco “Bey armudu” che significa “Pero del Principe”, con riferimento alla somiglianza con la pera bergamotta, varietà dalla polpa succosa, acidula e profumata.

Sir Edward Lear aveva intrapreso un lungo viaggio in nave da Londra a Napoli e da Napoli a Messina e Reggio, spinto dalla voglia di conoscere di persona un territorio che dai tempi antichi era un affascinante concentrato di miti. La polis Reghion era stata una delle prime città-stato dei Greci d’Occidente e la prima in Calabria, fondata il 14 luglio del 730 a.C. da emigranti della città di Calcide nell’isola di Eubea cui si erano aggregati un gruppo di esuli della Messenia. La località in cui erano approdati si chiamava Pallantion ed era protetta da un porto naturale formato dal promontorio di Calamizzi alla foce del fiume Apsias (odierna fiumara Calopinace). Ma secondo la Bibbia, nel 10° capitolo della Genesi, la sua origine come centro abitato risaliva al 2000 aC per opera di Aschenez, figlio di Gomer, pronipote di Noè. All’arrivo dei greci quel territorio si chiamava Italia. Il nome era dovuto al Re del gruppo dei Siculi che avevano deciso di non passare nell’isola. Re Italo era stato un monarca saggio e dopo la morte il suo popolo aveva assunto in suo onore il nome di “Itali” e aveva chiamato il territorio “Italia”. Il nome era stato gradito dai nuovi arrivati, coinvolgendo poi tutte le poleis elleniche fondate nella parte meridionale dello stivale. L’arrivo di Roma aveva esteso il nome “Italia” a tutta la parte centrale dello stivale sino a identificare l’intera penisola al di sotto delle Alpi dopo la conquista da parte di Giulio Cesare della Gallia Cisalpina. 

Pertanto Sir Lear aveva voluto conoscere da vicino quell’estremo lembo dello stivale sulla riva continentale dello Stretto di Scilla e Cariddi che aveva regalato il nome all’Italia e aveva invaso il mondo con quel suo agrume unico da cui si ricava un magico olio essenziale.  La sua ambientazione ottimale si trova esclusivamente nella sottile fascia costiera tra Scilla e Monasterace. E in nessun altro luogo al mondo.

Eppure a farlo fruttificare in altre aree ci hanno provato in tanti. Primi fra tutti i francesi, che tuttora importano annualmente da Reggio per la loro industria profumiera oltre il 60% dell’essenza prodotta. E poi californiani, spagnoli, israeliani, sudamericani e africani. Qualche piantagione è riuscita ad attecchire in Costa d’Avorio. Ne sono comunque scaturiti frutti poveri di quelle 350 componenti chimiche che hanno reso unico al mondo l’eccezionale agrume reggino. Tanto  speciale da fargli detenere ancora oggi oltre il 90%  della produzione dell’intero pianeta.

 Il Principe degli agrumi non è soltanto una pianta unica.  Si è rivelato un bene prezioso per l’intera umanità. E’ indispensabile per l’arte dei profumi e la cosmetica. E’ prodigioso nella farmaceutica. E’ in grado di dare un gusto inimitabile a dolci, gelati, liquori e altre pietanze.

Tuttavia sia l’unicità che le eccezionali qualità hanno alimentato soltanto ricchezze limitate ed effimere per la città e la provincia di Reggio. L’unicità non ha generato tutti gli effetti positivi perché il ciclo economico non è stato mai compiuto. L’uso locale del giacimento si è limitato allo sfruttamento delle fasi iniziali, cioè alla coltivazione, alla produzione di essenza e alla sua vendita. Non ha generato indotto con la creazione di un distretto economico fondato sulle industrie profumiera, farmaceutica e alimentare. Il Brand “Bergamotto di Reggio Calabria” non è stato mai tradotto in un progetto strategico né a livello locale né a livello governativo per promuoverlo come un tesoro prezioso del “Made in Italy” nel mondo e non è stato imposto a tutti i soggetti della filiera come prodotto identitario. Ne è conseguito che tutto il mondo conosce questo straordinario agrume ma soltanto gli addetti ai lavori sanno che è di Reggio Calabria. Motivo per cui la Regione Calabria continua a promuoverlo come se fosse uno dei tanti prodotti tipici, trattandolo non per come merita la sua unicità globale ma come una delle centinaia di varietà di patate, formaggi, cipolle, fichi, limoni, arance ecc. La Città Metropolitana di Reggio non ha proseguito i periodi in cui l’ex-provincia ha avuto un occhio di riguardo per esso e lo colloca nei pieghevoli pubblicitari genericamente come uno dei “prodotti tipici”. Il Governo Nazionale lo ha sempre ignorato.  Abbiamo ottenuto faticosamente dall’Unione Europea il riconoscimento della “DOP Bergamotto di Reggio Calabria Olio Essenziale” nel 2001 ma il Consorzio di Tutela della DOP non è riuscito a impostare una difesa efficace del marchio consentendo una serie infinita di abusi. L’Istituto Superiore di Profumeria è stato inserito nel Decreto Reggio ma mai realizzato in 30 anni, perdendo l’occasione di una istituzione di grande impatto sul piano formativo e di completamento del ciclo economico-produttivo.

Insomma le ricadute economiche e sociali sul territorio di questo speciale giacimento naturale sono state modeste rispetto alle potenzialità. E molteplici sono state le occasioni mancate in più di tre secoli di storia. Una storia che è stata attraversata da tanti eventi positivi e negativi. Una storia che ha certamente inciso sul mancato completamento del ciclo economico produttivo. Una storia che ha un suo irresistibile fascino perché in essa si intrecciano fatti certi, miti e leggende, elementi di rilievo locale, italiano, europeo e mondiale. Pertanto vale la pena raccontarla.

Tra storia e leggenda si colloca la vicenda che vede protagonisti un gentiluomo siciliano e un Re di Francia che come nessuno ne ha orientato le identità. Un giorno alla Corte del Re Sole, nella splendida Reggia di Versailles, venne ricevuto in udienza dopo lunga attesa un tal Francesco Procopio de’ Coltelli. Era partito da Palermo alla ricerca di fortuna a Parigi. Aveva portato con sé una sorbettiera regalatagli dal nonno.  Nel passaggio da Messina alla sponda reggina dello Stretto, aveva scoperto un agrume indigeno che, per un singolare incrocio di fattori connessi al microclima, all’esposizione al sole, al terreno e al prezioso ruolo delle fiumare, non fruttificava né in Sicilia né in altre terre a vocazione agrumaria. I coltivatori estraevano dalla buccia del frutto - per spremitura manuale a freddo - un olio essenziale, apprezzandone le qualità aromatizzanti, purificanti e curative e ricavandone una rudimentale “Acqua” profumata. Ne aveva intuito il valore e ne aveva portato una certa quantità a Parigi.

Quell’udienza ebbe successo. Per la Corte (a Versailles soggiornavano 15.000 persone tra nobili, dame, cortigiane e servitù) quell’acqua rappresentò un toccasana rispetto ai problemi che dalla Peste Nera del 1348 le pandemie avevano creato. Infatti il divieto da parte della classe medica dell’uso dell’acqua - considerata responsabile della diffusione delle epidemie di peste e di altre malattie infettive - aveva generato problemi igienici e diffuso anche a Versailles odori non consoni alla Corte più ricca e sfarzosa del mondo.

L’uso dell’acqua profumata rappresentò altresì una vera e propria rivoluzione olfattiva perché la sua profumazione delicata e armoniosa si rivelò molto più gradevole delle fragranze troppo speziate allora vigenti. Accadde così che la miracolosa acqua dell’intraprendente siciliano si rivelò una boccata d’ossigeno. Il Re la adottò per primo, facendola spruzzare su corpo, abiti e ambienti dopo i leggeri tocchi su fronte e guance dell’indice intinto nell’Aceto Balsamico di Modena (introdotto a corte da Caterina de’ Medici) che caratterizzavano il cerimoniale della sua igienemattutina.

Procopio guadagnò ancor più i consensi del Re, di cui era proverbiale la golosità, grazie alla sua rinnovata ricetta del gelato. Aveva apportato due innovazioni: lo zucchero al posto del miele ed il sale che, mescolato al ghiaccio nelle dovute proporzioni, ne allungava la durata. Luigi XIV ne divenne abituale consumatore e gli assegnò la “lettera patente”, in pratica la concessione reale, per la produzione di specialità come “acque gelate” (odierne granite) e sorbetti e l’apertura di punto di vendita e consumo.  Lettera che consentì al francesizzato François Procope des Couteaux  di fondare a Parigi nel 1686, al numero 13 di Rue de l’Ancien Comédie di fronte alla famosa Comédie Francaise di Moliére, il più antico Caffé del mondo: il “Café Procope”, tuttora attivo. Il locale divenne ben presto famoso servendo non soltanto il caffé ma anche granite e sorbetti.  Nacque con esso e si diffuse la tradizione dei Caffè Letterari, luoghi privilegiati di incontri e discussioni degli intellettuali nel Secolo dei Lumi. E si diffuse  la moda di profumare con l’Acqua al Bergamotto corpi, abiti e ambienti si diffuse nelle corti e nei salotti del continente. A Parigi e in altre grandi capitali europee nacquero altri Caffè, e le prime Case della Cioccolata e Botteghe di profumi.

Non poteva esserci battesimo migliore per l’essenza ricavata dalla pianta misteriosa nata in mezzo agli splendidi agrumeti di Reggio Calabria. Non era passato molto tempo dalla nascita del Café Procope che nella città tedesca di Colonia un altro geniale italiano, tal Gian Paolo Feminis (merciaio ambulante di Novara che percorreva l’Europa al seguito di una delle carovane di nomadi che erano protagoniste delle Fiere popolari), nel 1704 giunse al termine dei suoi esperimenti e brevettò “l’aqua admirabilis”. Venne diffusa inizialmente come acqua terapeutica e battezzata in seguito “Acqua di Colonia”. L’intuizione vincente di Feminis fu che quella formidabile essenza reggina era indispensabile per fissare le altre fragranze e aromi e ne assicurava una lunga vita.

 I tempi erano ancora quelli della società della ruota e dell’aratro, del cavallo e della carrozza, dei vascelli a vela e delle Cattedrali e Palazzi signorili e del Governo che avevano percorsi di costruzione proiettati negli archi di più generazioni. Cionondimeno i segni di un grande processo di cambiamento erano ormai ravvisabili nell’economia e nella società. E l’Acqua di Colonia e gli altri profumi e cosmetici trovarono nel corso del Settecento sempre più larghi strati sociali in ascesa, interessati al loro uso per imitare la nobiltà:  intellettuali delle libere professioni; proprietari di terre acquistate e coltivate in maniera intensiva; mercanti, banchieri e armatori che traevano rilevanti profitti dai commerci con le Indie e dalla vergognosa tratta degli schiavi  (col circuito dell’Asiento Europa-Africa-Americhe); proprietari “criollos” delle piantagioni del Nuovo Mondo che si arricchivano sfruttando il lavoro degli schiavi e vendendo i prodotti tropicali  pregiati in Europa (caffé, cacao, cotone, tabacco, zucchero di canna, té);  padroni e amministratori delle miniere e delle prime fabbriche tessili e siderurgiche inglesi e via dicendo. La richiesta di essenza si accrebbe quindi oltre le disponibilità delle piante sparse.

 Verso il 1750 si verificò una straordinaria coincidenza di iniziative a parecchi chilometri di distanza che testimonia l’adeguamento ai precitati processi di cambiamento.

Nella città francese di Grasse l’Azienda Fragonard - la più antica fabbrica di guanti profumati per la nobiltà grazie alle materie prime del suo territorio (tra cui la lavanda, il gelsomino e la rosa canina) - decise di riconvertirsi nella produzione di profumi e di cosmetici, arricchendola con l’essenza dell’agrume reggino. La seguirono la Galimard e le altre Aziende che hanno reso ricca e famosa la piccola città provenzale, guadagnandole il titolo di  “Cité des Perfumes”.

Contemporaneamente a Reggio Calabria il proprietario borghese Nicola Parisi creò il primo Bergamotteto nel suo fondo di Rada Giunchi (area dove sarebbe sorto il Lido Comunale Genoese Zerbi). Lo seguirono numerose famiglie nobili e borghesi, che già alternavano alle piantagioni di agrumi una produzione di tipo pre-industriale con la coltivazione intensiva del gelso connessa alla lavorazione della seta. La sponda reggina dello Stretto pullulava di filande, che s’intersecavano ai gelseti e agli agrumeti ed esportavano la seta grezza dal Porto Franco di Messina.

Ebbe inizio una larga riconversione con la sostituzione di gelseti e agrumeti con i bergamotteti, più remunerativi sia per la crescente domanda dell’essenza che per la posizione di monopolio. Le famiglie Valentino, Leone, Vilardi, Geria, Genoese, De Blasio crearono attorno al centro storico - nei villaggi di S. Caterina a Nord e  Sbarre a Sud e nelle zone collinari percorse dalle fiumare - una vera e propria cintura verde di piantagioni con le annesse fabbriche di estrazione dell’essenza. E verso la fine del secolo la cintura verde avanzò in ogni direzione.

I cambiamenti erano stati incoraggiati dal flusso di rinnovata fiducia suscitato nel 1734 dall’avvento al trono di Napoli del Re Carlo di Borbone. Il sovrano aveva avuto il merito di avere ripristinato dopo secoli di viceregni lo stato napoletano indipendente e di avere avviato una dinamica politica illuminata. La fiducia non venne intaccata da alcune impreviste interruzioni: la peste del 1743 sulle due sponde dello Stretto; la carestia che investì il Regno nel 1763-64; e il terremoto calabro-siculo del 1783 che provocò la distruzione di buona parte del centro storico reggino. La ricostruzione realizzata dall’ingegnere napoletano Giovan Battista Mori cambiò i connotati di Reggio. Scomparve la struttura di carattere medievale e vide la luce una nuova città con un impianto geometrico, in cui risultava evidente l’influsso raziocinante della cultura dell’Età dei Lumi. La stessa cultura che all’inizio del ‘700 aveva ispirato i progettisti italiani di San Pietroburgo, la nuova capitale russa voluta dallo Zar Pietro I il Grande.

Il centro storico venne impostato su due grandi strade parallele al mare: lo Stradone (poi chiamato Corso Murat; Corso Borbonio;  e dopo l’Unità Corso della Vittoria e Corso Garibaldi) e la Via della Marina (una sola carreggiata terrazzata sul mare e abbellita dai grandi edifici della Palazzina). Le due arterie principali erano intersecate da strade perpendicolari che portavano dal mare alla collina, mentre sul Corso si aprivano a intermittenza le piazze ispirate alla tradizione greca dell’Agorà.

I Giardini di Bergamotto continuarono a caratterizzare la città e il suo circondario. La lavorazione dell’essenza favorì a sua volta la formazione di una vera e propria “borghesia del Bergamotto”, colta e aperta alle nuove idee che circolavano in Europa. I suoi giovani rampolli non si fermavano a Napoli o a Messina, tradizionali sedi dei loro studi universitari, ma estendevano i loro orizzonti sino a Parigi, cuore della cultura illuminista, e a Londra, dove si stavano rivoluzionando sistemi di produzione millenari. Anche per questi motivi nell’ultima parte del ‘700 la sponda reggina dello Stretto si caratterizzò  come l’area più dinamica della regione. Un’area che vide fiorire iniziative ardimentose tra cui: quella del marchese  Domenico Grimaldi di Seminara, creatore a Reggio nel 1784 della prima Scuola Reale per la produzione  di seta alla “piemontese”;  e quella dei fratelli Roccantonio e Innocenzo Caracciolo, che fondarono nel 1789 a Villa S. Giovanni due filande “reali”, le prime  fabbriche tessili a ciclo completo (con produzione di seta di qualità  e non seta grezza) e avviarono  il primo trattamento del vino con metodo francese. Villa San Giovanni (allora Fossa di Fiumara) si guadagnò per questi motivi l’appellativo di “Manchester delle Calabrie”. Purtroppo in meno di un decennio queste imprese che si muovevano in sintonia con la Rivoluzione Industriale vennero spazzate via da una larga alleanza tra feudatari allarmati e filandieri invidiosi.

La “Borghesia del Bergamotto” venne quindi coinvolta in due delle tre grandi Rivoluzioni borghesi (quella Industriale in Inghilterra e quella politica e sociale in Francia).  Rivoluzioni che originarono stravolgimenti in tutti i settori: cambiarono i connotati degli Stati segnando il passaggio del potere dalle aristocrazie alle borghesie; ribaltarono l’economia  incrementando la capacità quantitativa dei sistemi di produzione grazie alle macchine, col passaggio dalle botteghe artigianali a fabbriche di grandi dimensioni; trasformarono i sudditi in cittadini e riaffermarono - per la prima volta dai tempi delle pòleis elleniche - il criterio della selezione per merito, accantonando il diritto per nascita che aveva caratterizzato l’Ancien Régime.

Ne derivò un ritmo di espansione frenetico, con l’allargamento della fascia dei consumatori di beni come quelli del comparto profumiero e cosmetico. Un settore che assunse proporzioni inimmaginabili sino ad allora, alimentando la domanda dell’essenza reggina.

Lo stesso Napoleone svolse il ruolo di prestigioso promotore portando sempre con sé un flaconcino di Eau de Cologne nascosto nello stivale non soltanto in cerimonie, feste e ricevimenti, ma anche quando era impegnato nelle sue innumerevoli campagne militari.

La presenza francese nel Regno di Napoli dal 1806 al 1815, col trono dapprima affidato a Giuseppe Bonaparte e dal 1808 a Gioacchino Murat, contribuì ad alimentare a diffusione della coltivazione del Principe degli Agrumi. Infatti i napoleonidi – con la legge sull’eversione della feudalità del 1806 - privarono i nobili dei loro privilegi giurisdizionali e fiscali, liberando nuovi terreni dall’immobilismo e aprendoli, con gli acquisti da parte di borghesi, alla coltivazione intensiva. Assegnarono inoltre, tramite una quotizzazione, molti terreni incolti a contadini senza terra. Incentivarono così l’avanzata delle colture specializzate e in particolare dei bergamotteti.

Nel febbraio 1804 si verificò una nuova svolta. Il giovane medico reggino Francesco Calabrò Anzalone pubblicò la sua tesi di laurea con il titolo “Della balsamica virtù dell’essenza di bergamotta nelle ferite”. Girando per i giardini aveva appreso (e lo raccontò corredandolo di dati, esperienze e riflessioni) che l’essenza di Bergamotto era ampiamente utilizzata da proprietari e contadini come un rimedio domestico effficace per curare una gamma ampia di affezioni della pelle, del sistema digestivo, dei dolori reumatici, delle malattie dell’apparato respiratorio e per disinfettare ferite e ambienti. La sua scoperta destò profondo interesse negli ambienti della scienza medica e aprì un nuovo fronte di utilizzazione del Principe degli Agrumi: il settore farmaceutico.

Dopo la caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna riportò sui rispettivi troni i sovrani spodestati dal Grande Corso. Ma non riuscì a cancellare gli effetti dei cambiamenti in Francia dal 1789 al 1815 né le profonde trasformazioni negli altri Paesi. Ciò valse anche per la restaurazione a Napoli dei Borbone. Il monarca, tornato da Palermo come Sovrano del Regno delle Due Sicilie  e col nuovo nome di Ferdinando I, non annullò i rinnovamenti legislativi, economici e sociali varati dai napoleonidi. In taluni casi il rinnovamento venne addirittura accentuato o completato. Fu il caso di  Reggio. I funzionari murattiani avevano ipotizzato una nuova suddivisione dello Stato in province. Ferdinando I riprese il progetto e lo attuò. Così nel 1816, nell’ambito della riforma amministrativa, nacque la Provincia di Calabria Ultra Prima con capoluogo Reggio Calabria.

Nella prima metà dell’800 lo straordinario albero reggino rientrò a vele spiegate anche nel settore gastronomico. Alcune iniziative straniere recuperarono questo uso grazie al quale il Principe degli Agrumi aveva mosso i primi passi. Al rilancio ci pensò la ditta inglese Twinings lanciando nel 1830 il suo prodotto più famoso: l’Earl Grey Tea, aromatizzato al Bergamotto. Ebbe un tale successo da trainare l’azienda verso la leadership mondiale nel settore. Ma la pubblicità fu ingannevole: nelle confezioni venne diffusa la menzogna che la ricetta aromatizzante che dava uno speciale gusto alla bevanda era stata portata da una sperduta regione della lontana Cina, da un inviato del Conte Grey. Nessuno denunciò questo danno enorme di immagine che dal 1830 venne arrecato alla comunità reggina sino alla mia scoperta.  La stessa felice sorte toccò a “Les Bergamottes” di Nancy, caramelle aromatizzate al Bergamotto che dal 1850 sono le più rinomate in Francia. Al contrario della Twinings le aziende dolciarie della piccola città della Lorena hanno sempre dato un’informazione corretta sulla sostanza aromatizzante. L’aroma dell’agrume reggino entrò anche nella composizione di tanti liquori inglesi e statunitensi (Chicago honey-dew, Love perfect, Lucia’s Elixir, Rifle Corps’ elixir) e nella famosa Eau verte stomachique francese.

Nonostante questi numerosi esempi Reggio e l’Italia continuarono a snobbare l’uso dell’agrume nell’industria alimentare (escluse le bucce candite). Eppure si trattava di un settore in cui l’Italia vantava una delle sue più ricche tradizioni e precedenti significativi: i “Bergamini Confetti” che avevano fatto parte nel 1536 del menu del banchetto offerto a Roma dal Cardinale Campeggi in onore  dell’Imperatore Carlo V; nello stesso periodo alla corte di Cosimo I de’ Medici Bernardo Buontalenti aveva creato un sorbetto composto da “una crema aromatizzata al Bergamotto, limoni e arance”; il Sorbetto realizzato da Procope già citato.

A mio avviso la ragione fu lo scarso interesse di produttori, trasformatori ed esportatori, presi nel vortice dei profitti maggiori che dava la vendita dell’essenza al comparto profumiero e poco allettati dalle esigue quantità di succo o di essenza occorrenti nel settore alimentare. Una maggiore attenzione venne dedicata invece alla coltivazione delle piante aromatiche. Così la via del Bergamotto s’incrociò nella costa jonica con la Riviera dei Gelsomini, mentre nei piani dell’Aspromonte si affermarono folte piantagioni di Lavanda. 

 Nonostante le occasioni mancate, nel periodo compreso tra il 1821 e il 1851, nell’ambito della crescita demografica di Mezzogiorno e isole, fu “la provincia di Reggio - come ha rilevato Augusto Placanica -  a guidare l’aumento…, soprattutto nel capoluogo (+83%)”. Il processo di trasformazione del panorama agrario corrispondeva a quell’incremento: nel circondario reggino regnava il bergamotto in compagnia con la vite nei terrazzamenti di Scilla e Bagnara e con la lavanda sui piani d’Aspromonte; nel Distretto tirrenico primeggiava l’ulivo; e nel Distretto jonico si andavano espandendo, spesso intersecandosi, il bergamotto e il gelsomino.

Le vicende del Risorgimento confermarono il ruolo di guida assunto dalla borghesia legata a queste attività. Ruolo che emerse il 2 settembre 1847, quando Reggio e Messina, assieme al  Circondario di Gerace, si sollevarono contro il governo borbonico per chiedere l’instaurazione di una monarchia costituzionale mediante la concessione dello Statuto. Alla testa di quella Rivoluzione che anticipò la Rivoluzione Liberale Europea del ’48 (scoppiata a  gennaio a Palermo) furono i reggini.  Domenico Romeo di S. Stefano d’Aspromonte ne fu l’ispiratore e il primo martire, il canonico Paolo Pellicano il Presidente della “Giunta Provvisoria di Governo” e Casimiro De Lieto (esponente di punta della “borghesia del bergamotto”) il leader.

L’impegno nella fase risorgimentale e l’esilio dei maggiori esponenti dopo le vicende del ’48 non fermò le attività nel volano dell’economia. Assieme alla produzione intensiva si ricercò sempre più la qualità sia nei sistemi di coltivazione che nelle procedure di estrazione dell’essenza, dove i reggini erano divenuti imbattibili. Protagonista di questo salto di qualità era la figura professionale del “mastro spiritaro” o “sfumatore”, persona che aveva doti di particolare abilità nel trattare e selezionare i frutti, nel lavorarne la  preziosa  scorza  e nell’estrarne il meglio.  La spremitura a mano esaltava le qualità sino a tramutarsi in arte. Tuttavia l’incremento della domanda mondiale richiedeva un sistema di estrazione meccanizzato. Rispose a tale esigenza la cosiddetta “macchina calabrese” per l’estrazione dell’essenza del reggino Nicola Barillà, che vinse nel 1844 il Premio istituito per le nuove invenzioni dal governo borbonico.

 La nuova macchina – in seguito perfezionata da Auteri e Gangeri – fu in grado di intensificare la quantità della produzione e di elevare la qualità dell’olio essenziale. Il ruolo dei Mastri rimase comunque prezioso, sia per seguire le fasi della coltivazione della pianta - la più delicata tra gli agrumi - che per indirizzare e sorvegliare i vari passaggi della lavorazione dell’essenza.

Lo scenario che Reggio presentava all’appuntamento col nuovo Stato nel 1861 era tra i migliori nel Sud. Gaetano Cingari lo ha tratteggiato lucidamente nel saggio “Reggio Calabria”: la città era “in positiva evoluzione” con un costante incremento demografico e “significativi sviluppi produttivi e commerciali”. Si era altresì “rafforzato il rapporto con il territorio circostante addetto in larga parte a colture specializzate”. Nel suo comprensorio era assente la coltura estensiva e “il lavoro dei medi e piccoli proprietari e dei coloni miglioratari” aveva fatto “fruttare la fertilità del suolo”.

  Tuttavia le speranze che riponevano nel nuovo Stato i leaders del ’47-48 e i più giovani si rivelarono più utopiche che realistiche. L’applicazione indiscriminata del liberoscambismo cavouriano ebbe effetti disastrosi. Generò una caduta verticale dei settori produttivi pre-industriali  protetti dalle tariffe doganali borboniche. Annullò nel contempo i vantaggi oggettivi del Porto Franco di Messina, che perse la condizione privilegiata di oasi fiscale divenendo uno dei tanti porti italiani.

La città dello Stretto, centro vitale di commerci, fulcro di un sistema economico avanzato che aveva nella sponda reggina produzioni esclusive come quella dell’essenza e degli altri derivati del bergamotto e quelle della seta e delle bozze di pipa, perse in soli tre anni 33.000 posti di lavoro ed entrò in una crisi irreversibile. Espresse la sua rabbia eleggendo nel 1866 per protesta Giuseppe Mazzini a suo deputato per ben tre volte, con le prime due bocciate dalla Camera e il diniego dignitoso dello stesso esule genovese quando venne accettata la sua terza elezione.  

Nel crollo del Porto Franco venne trascinata l’intera area dello Stretto. Gli effetti più ragguardevoli si evidenziarono nella coltivazione dei gelsi e nella produzione ed esportazione della seta grezza. Nel 1863 le filande in attività nel versante reggino dello Stretto erano 161, nel 1880 erano calate a 80, nel 1888 erano crollate a 27. Quest’ultimo nucleo occupava nel 1894 ancora 5.000 operai e nel 1897-98 produsse 150.000 Kg di seta. L’ex-grande polo tessile reggino riuscì a resistere sino al secondo dopoguerra quando chiusero i battenti gli ultimi due opifici di S. Caterina e Cannitello. Esso non aveva potuto far nulla di fronte alla concorrenza incrociata di tre fattori: l’immissione massiccia nei mercati mondiali delle sete giapponesi e cinesi; le sete prodotte dalle aziende lombarde, genovesi e toscane che avevano potuto adeguarsi tecnologicamente grazie all’appoggio governativo; la prima diffusione dei tessuti sintetici.

Le altre colture specializzate (agrumi, olivo e vite), sebbene danneggiate e indebolite dal liberoscambismo, nei primi decenni ressero grazie all’esportazione all’estero. I proprietari di esse concorsero altresì, assieme alla borghesia del bergamotto, a impinguare le casse asfittiche del nuovo Stato tramite l’acquisto delle terre dell’Asse Ecclesiatico. Svuotarono però le loro casse e si esposero al pericolo di restare senza copertura finanziaria in caso di eventuali crisi. Contribuirono così a tenere in piedi la Bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l’espansione delle infrastrutture (soprattutto le ferrovie) nel Nord. 

Le attività di questi strati agricoli dinamici subirono infine gli effetti indiretti della Guerra Civile tra Stato sabaudo e brigantaggio meridionale. Guerra che favorì o comunque fornì un robusto alibi al ritardo nella creazione di infrastrutture nel Sud con lo stesso ritmo del Nord. E a poco servì che la Commissione Massari-Castagnola avesse riconosciuto nel 1862 la provincia di Reggio come estranea alla ribellione sociale del brigantaggio grazie all’assenza del latifondo e alla prevalenza in essa, specie nel circondario del capoluogo, della piccola e media proprietà dedite alle colture intensive specializzate. Tant’è che assieme a quella di Teramo fu l’unica provincia esclusa dalla Legge Pica, promulgata il 15 agosto 1863 e rimasta in vigore sino al 31 dicembre 1865. Una legge che, invece di affrontare le cause economiche e sociali della protesta di massa (in particolare il latifondo), preferì la via più facile dello stato d’assedio e della repressione indiscriminata tramite l’impiego di due terzi dell’Esercito nel Sud. Si arrivò ad interventi contro interi paesi, messi a ferro e fuoco con atti gravi da truppe di occupazione nei confronti della popolazione civile.

Ma quando nell’87 venne adottata la svolta protezionistica a favore dei prodotti dell’industria settentrionale gli altri paesi europei vararono tariffe contro gli unici prodotti di esportazione italiani: olio, vino e agrumi. Per la parte più dinamica dell’economia meridionale fu il tracollo, cui seguì la grande crisi agraria degli Anni Novanta e un decennio di rivolte delle campagne cui i Governi risposero con una feroce azione repressiva. Ne derivò l’avvio del grande esodo migratorio verso le Americhe del Nord e del Sud. Infatti il grosso degli emigrati di quell’ultimo decennio dell’800 fu costituito da piccoli proprietari di colture specializzate del Sud. Rovinati dalla guerra tariffaria, scelsero come unica via d’uscita la vendita del terreno e l’acquisto dei biglietti per il “bastimento a vapore”. 

In tale contesto il Bergamotto reggino rimase l’estremo baluardo di resistenza. Favorito dalla posizione di monopolio, sino alla fine degli Anni Ottanta continuò la sua lunga fase d’oro collocando a prezzi remunerativi l’essenza e gli altri derivati (l’agrocotto, il petitgrain ecc.) sui mercati di tutto il mondo. Nel 1883, secondo la puntuale relazione di Domenico Carbone-Grio della Camera di Commercio di Reggio, .

Della fase d’oro usufruirono tutti i soggetti della filiera. Da novembre a marzo segmenti molto ampi degli abitanti dell’area costiera interessata e dei paesi aspromontani erano coinvolti nelle diverse fasi della lavorazione: dalla raccolta dei frutti al loro trasporto, dalle fabbriche per l’estrazione dell’essenza, del succo e degli altri derivati alla confezione e alla spedizione. Per molte famiglie contadine la  stagione della raccolta era un periodo atteso con ansia perché consentiva un’entrata economica da tesaurizzare per l’intero corso dell’anno. La catena era molto complessa e richiedeva l’impiego di diverse migliaia di addetti (6.000-7.000 persone). Pietro Familiari ha descritto il risveglio nel “tempo del bergamotto” di molte attività anche collaterali (carpentieri, falegnami, fabbri, maniscalchi, saldatori, meccanici, fabbricanti di macchine, cestai) “quasi che la lavorazione del bergamotto fosse la sorgente che scaturendo in un deserto crea attorno un’oasi di verde”. 

 Per le famiglie proprietarie il Principe rappresentò un ulteriore salto di qualità nel reddito e nel livello di vita, nei rapporti economici e sociali, nell’accesso a livelli d’istruzione superiore. Per chi aveva cognizioni tecniche e inventiva si aprirono prospettive di realizzazione nella ricerca di forme più moderne di estrazione dell’essenza e di invenzione di nuove macchine.  Altri fecero fortuna con le fabbriche per l’Estrazione dell’essenza. Altri ancora - reggini, messinesi e stranieri che operavano nella città siciliana - accumularono consistenti patrimoni con le Case di Spedizione all’estero.

L’ultimo decennio dell’800 rappresentò il periodo in cui il rapporto della maggioranza degli italiani, e ancor più dei meridionali, col nuovo Stato toccò il livello più basso.  L’Italia unita, che nel sogno degli animi migliori avrebbe dovuto aprire nuovi orizzonti, s’era rivelata uno Stato con figli e figliastri, in cui le migliori risorse venivano destinate prevalentemente allo sviluppo di una parte ristretta del Paese. A scapito di tutti. Anche di un prodotto unico come il Bergamotto.

Le sue eccezionali vendite all’estero erano servite anch’esse per finanziare - attraverso il sistema bancario, un vessatorio prelievo fiscale e gli acquisti delle terre ecclesiastiche - le infrastrutture del Triangolo. Le tariffe doganali protettive del 1887 vennero contrattate col settore più retrivo del Sud:  la grande proprietà latifondista, nemica della borghesia produttiva degli agrumeti, degli uliveti e dei vigneti, interessata a proteggere il grano. Unico prodotto agricolo inserito nelle tariffe.

Il principe degli agrumi non venne travolto subito dalla “guerra delle tariffe”. Anzi in un primo tempo guadagnò nuove piantagioni in seguito all’ulteriore taglio di gelseti grazie alla chiusura record in soli otto anni, dal 1880 al 1888, di 53 filande. Ma si trattò di una resistenza isolata ed effimera, in un contesto socio-economico impoverito e strutturalmente indebolito, con un governo mai così ostile e un sistema bancario ancora più predatorio. Infatti nel 1892 il mercato dell’essenza di bergamotto subì la prima forte caduta dei prezzi. Fu un trauma per molti. Si era radicato il convincimento che, grazie alla posizione di monopolio, il Principe fosse una specie di splendida eccezione. Con quella prima caduta del prezzo, scese dal piedistallo ed i nodi irrisolti vennero al pettine pure sul suo versante. I motivi erano da ricercare sia nell’accumulazione degli stock invenduti nei magazzini dei grandi esportatori che nell’invasione delle prime sofisticazioni miscelate.

Le miscele venivano piazzate presso le industrie di profumi francesi, inglesi, tedesche e americane, approfittando dei metodi approssimativi di controllo della genuinità. A farci le spese furono i produttori, costretti a subire nuove drastiche cadute del prezzo dell’essenza grazie al meccanismo ricattatorio delle anticipazioni finanziarie degli esportatori. Non era passato molto tempo che giunse un’altra mazzata. L’industria chimica Schimmel di Lipsia lanciò nel 1894 il Bergamiol, brevettato per migliorare l’essenza ma in verità destinato a sostituirla.

La legge n. 378 contro le sofisticazioni delle essenze, varata il 7 agosto 1897, non risolse il problema. Creata in seguito alle pressioni dei produttori di essenze siciliani, essa colpiva le falsificazioni in generale e non aveva tenuto conto della specificità dell’essenza reggina. L’essenza del Principe veniva allungata dai mercanti delle Case di Esportazione con quella di limone. Questa falsificazione uscì legalizzata dalla legge, alimentando i profitti dei pochi mercanti e danneggiando ulteriormente i produttori.

La prima crisi evidenziò un nodo mai affrontato. In teoria il possesso esclusivo avrebbe potuto stimolare sia il reinvestimento nella coltivazione e nell’estrazione che l’investimento di capitali in un Distretto Industriale. Ciò non avvenne se non in maniera sporadica e per merito di pochi, circondati perdippiù da ostilità diffuse come quelle subite a fine ‘700 da Grimaldi e dai Caracciolo. Per quali ragioni? Innanzitutto la relativa facilità con cui sino al 1860 si poteva esportare usufruendo dei privilegi fiscali del Porto Franco di Messina rappresentò un vantaggio, ma anche uno svantaggio. Alimentò difatti la tendenza a percorrere la via che sembrava più facile e senza rischi: esportare l’essenza. Tale tendenza era stata rinvigorita dalla consuetudine di esportare la seta grezza, le bozze di pipe e altre derrate semi-lavorate. Una consuetudine assodata che aveva forgiato una cultura economica orientata a devolvere ad altri il completamento del ciclo produttivo.

In secondo luogo mancò un elemento essenziale per avviare un processo di industrializzazione: il sistema creditizio. Erano assenti nel Regno delle Due Sicilie banche dedite al sostegno al rischio d’impresa e all’investimento. E dopo l’Unità l’arrivo delle Banche del Nord fu un passaggio dalla padella alla brace: gli istituti di credito settentrionali scesero nel Meridione col solo obiettivo di drenare capitali per destinarli esclusivamente agli investimenti nell’area lombardo-piemontese. 

Dal canto loro i Governi pre-unitari non colsero le opportunità che offriva il monopolio mondiale di quella materia  prima,  indispensabile per un comparto industriale in trend ascendente. I Borboni predilessero forme d’intervento che incentivavano soprattutto l’industria di base e la cantieristica, con maggiore attenzione rivolta all’area campana e ad alcune realtà delle Puglie.

I Governi sabaudi fecero di peggio. Furono molto più interessati da una parte a rastrellare risorse per investirle nelle infrastrutture e nel sostegno allo sviluppo nel Triangolo industriale e dall’altra a smantellare le strutture pre-industriali sovvenzionate o protette dai Borboni.

In questo scenario già di per sé non esaltante, dopo il 1860 i bergamotticoltori restarono prigionieri dell’unicità del loro giacimento. Pagarono cioè per il loro storico oggettivo isolamento dovuto alla collocazione in regime di monopolio del prodotto e non poterono usufruire di alcuna alleanza con agricoltori di altre regioni. Inoltre si indebolirono finanziariamente grazie alla complessiva crisi economica dell’Area dello Stretto, alle loro casse prosciugate per essersi gettati a capofitto nell’acquisto delle terre dell’Asse Ecclesiastico, al muro del disinteresse e dell’indifferenza del Governo e al rifiuto di qualsivoglia credito agevolato del sistema bancario.

Privi di un solido sostegno sia pubblico che privato, si dovettero quindi arrangiare da sé. E furono costretti a barcamenarsi tra l’incudine e il martello: le anticipazioni concesse dalle case d’esportazione di Reggio e Messina in cambio del contratto preventivo sui prezzi di acquisto del prodotto, di fatto imposti; oppure il ricorso all’ultima spiaggia dell’usura, anticamera del tracollo.

  In tali condizioni i coltivatori avrebbero potuto fare tutto meno che pensare a creare progetti di utilizzazione a livello locale della preziosa materia prima e di altre essenze come il gelsomino della riviera jonica e la lavanda dell’Aspromonte.  Potenzialmente avrebbero potuto investire nell’indotto gli esportatori, gli unici che continuavano a trarre alti profitti. Erano altresì oggettivamente avvantaggiati da due solidi motivi: avevano la possibilità di comprare l’essenza ad un prezzo basso e da loro stessi imposto; possedevano la struttura già attrezzata per la promozione e la commercializzazione. Ma non vollero imbarcarsi in iniziative imprenditoriali che varcassero la soglia d’ingresso nel mondo della produzione industriale, con i relativi rischi d’impresa. Preferirono continuare ad accumulare comodi ed elevati profitti a rischio zero per tesaurizzarli in beni immobili. In sostanza, nei 150 anni dalla prima piantagione intensiva il prezioso agrume procurò ai reggini una fase storica particolarmente vivace e dinamica, generò tante energie creative, aprì nuovi orizzonti verso il resto del mondo, consentì momenti felici di sviluppo economico e sociale. Tuttavia, in fondo al cammino, ai reggini (esclusa la ristretta cerchia degli esportatori reggini, messinesi e stranieri) rimasero soltanto le briciole rispetto agli enormi profitti realizzati dagli altri.

Nonostante le difficoltà e i limiti, all’alba del Novecento il circondario di Reggio continuava ad essere una delle aree di più elevato dinamismo economico-sociale dell’intero Mezzogiorno. Con l’arrivo nel 1894-95 della ferrovia tirrenica l’esportazione dell’essenza verso i mercati esteri recuperò le perdite subite nei primi Anni Novanta. La ferrovia sospinse la ripresa degli altri comparti in crisi dopo le tariffe doganali dell’87. Col nuovo porto, costruito nella rada di Pentimele tra il 1872 e il 1885, era stato avviato il traghettamento ferroviario con Messina tramite i ferry-boats e vi era stata una forte ripresa delle attività commerciali. A rafforzare questa ripresa era intervenuto il riconoscimento di Reggio come sede del Dipartimento Marittimo di Calabria e Basilicata.

La città aveva continuato a crescere demograficamente e si era ampliata prolungando il Corso Garibaldi sino alla Piazza omonima con la Stazione Centrale delle Ferrovie, costruendo nuovi ponti che avevano aggregato meglio al centro storico S. Caterina e Sbarre, attuando l’illuminazione pubblica, costruendo il sistema fognario e l’acquedotto. Nel 1908, come ha rilevato Filippo Aliquò-Taverriti, “a Reggio prosperavano i commerci, progrediva l’agricoltura, fiorivano le industrie, specialmente quelle degli agrumi, delle essenze di bergamotto, della seta”. Domenico Cersosimo ha sottolineato il miglioramento della “qualità e del tono della vita cittadina, soprattutto entro il perimetro del centro storico direzionale e signorile” e l’abbellimento delle strutture edilizie “dalla Via Marina alle Stazioni Ferroviarie”. E Lucio Gambi, nella sua Calabria-Utet, ha evidenziato la crescita delle funzioni di Reggio come città guida della regione con indubbi riconoscimenti quali la dislocazione in essa del “Dipartimento Marittimo, del Dipartimento Ferroviario, della Sovrintendenza per le antichità e le arti” e la nascita di nuove “numerose aziende per esportazione di agrumi, oli e vini delle vicine riviere e di legno da Aspromonte”.

Anche sul versante Bergamotto stavano emergendo innovazioni significative. Nel gennaio 1907 aprirono i battenti i Magazzini Generali della Società “La Zagara”. La Camera di Commercio promosse e sostenne l’iniziativa, invitando i produttori ad aderire in quanto l’obiettivo dei Magazzini era “di permettere loro di vendere il prodotto nel momento più opportuno, rendendo contemporaneamente disponibile nelle loro mani quasi la totalità del valore delle essenze depositate”. Si sarebbe così rotta la tenaglia asfissiante tra esportatori - che imponevano prezzi stracciati in cambio delle anticipazioni - e usurai. Il 18 marzo dello stesso anno il Consiglio Comunale deliberò una somma per la costruzione di un Gabinetto Chimico Pubblico con lo scopo di analizzare la genuinità dei derivati agrumari, garantendone la qualità e combattendo nel contempo le sofisticazioni.

Su questo più che promettente inizio del ‘900 si abbattè la furia devastatrice del terremoto più catastrofico nell’area dello Stretto e nella storia del mondo. Non s’era ancora fatto giorno in quel freddo 28 dicembre del 1908 quando una scossa interminabile di 35 secondi - seguita da tante altre e da un’onda gigantesca di maremoto - spazzò via tutto. Decimò risorse umane. Distrusse tutte le forme di vita sociale ed economica. Azzerò quasi completamente edifici e manufatti. Su 45.000 abitanti Reggio ebbe oltre 15.000 morti (25.000 con la sua provincia) e un numero mai calcolato di feriti. Fu un disastro immane, che sconvolse il mondo degli affetti e le famiglie creando una marea di orfani e di genitori senza figli. Ruppe traumaticamente qualsiasi esile trama di sviluppo; gettò nello sconforto e disorientò le forze produttive; assottigliò in maniera drastica le migliori prospettive di sviluppo. Un disastro che suscitò una grande mobilitazione solidale da tutte le parti del mondo e vide nascere la “città di legno”, la città baraccata grazie agli aiuti che giunsero da qualsiasi parte del mondo nell’ambito di una eccezionale gara di solidarietà suscitata dalle spaventose dimensioni dell’evento sismico. Fu un disastro che costrinse ancora una volta i reggini e i messinesi a rimboccarsi le maniche e a ricominciare tutto daccapo. Un disastro che impose un lungo intervallo, di almeno due decenni, in cui la parola d’ordine fondamentale fu quella della ricostruzione.

Il piano dell’ing. Pietro De Nava del 1911 - sostenuto a Roma dall’unico ministro reggino dopo l’Unità Giuseppe De Nava e a livello comunale da Giuseppe Valentino, Sindaco della “Ricostruzione” - rispettò essenzialmente l’impianto illuministico di Mori, salvaguardando la continuità e perpetuando il senso di identità e appartenenza. Il Corso venne esteso verso Nord aprendolo con la nuova Piazza che venne dedicata a Giuseppe De Nava e al ricordo della forte volontà di rinascita che caratterizzò la ricostruzione. Il cambiamento più rilevante fu comunque l’ampliamento della Via Marina con lo spostamento a monte della linea degli edifici e una prima carreggiata; la creazione di una fascia verde; e una seconda carreggiata proiettata verso lo scenario unico dello Stretto.

Anche il bergamotto riprese il suo ciclo di attività. Una tappa importante della ripresa fu l’inserimento, grazie al Ministro De Nava, di Reggio Calabria nella Legge del 1918 che istituì le Stazioni Sperimentali per garantire un salto di qualità in alcuni comparti caratteristici delle produzioni italiane. Reggio venne scelta come sede della Stazione Sperimentale per le Industrie delle Essenze e dei Derivati dagli Agrumi, grazie al suo prezioso agrume identitario. Un’istituzione che assegnava un ruolo importante di controllo e certificazione dell’autenticità delle essenze agrumarie. Altro passo avanti fu quello dell’istituzione nel 1931 del Consorzio del Bergamotto di Reggio Calabria. Un Decreto Ministeriale del 1946 ne definì meglio le funzioni. Nel dopoguerra - grazie alla collaborazione tra Ministero, Comune, Provincia, Consorzio e Stazione Sperimentale - venne organizzata per diverse edizioni a Reggio la Fiera Internazionale delle Attività Agrumarie, delle Essenze e degli Olii che venne sovente aperta dal Ministro dell’Agricoltura in carica. Dopo l’istituzione delle Regioni nel 1970, nel 1977 il Consorzio passò alla Regione. Anche l’Ente Fiera passò sotto la giurisdizione della Regione e la Fiera Agrumaria degradò sino alla chiusura.

Il periodo comunque più difficile per il Principe degli agrumi fu negli Anni ’80, quando subì il più insidioso degli attacchi della sua storia. Le potenti multinazionali chimiche statunitensi, produttrici di essenze sintetiche, orchestrarono e finanziarono una campagna mondiale di disinformazione pseudo-scientifica contro presunte caratteristiche tossiche e cancerogene dell’essenza di bergamotto. Per contrastare la campagna denigratoria le industrie profumiere francesi, seguite da quelle italiane, assunsero l’iniziativa di dare vita nel 1982 al Comitato Internazionale di Difesa del Bergamotto, con sede a Parigi. Nel febbraio del 1985 venne nominato un Consiglio Scientifico col compito di eseguire studi interdisciplinari (biochimica, foto-tossicità, mutagenesi, carcinogenesi, controlli su soggetti umani). Le conclusioni del Consiglio Scientifico smentirono clamorosamente le bugie. Venne scientificamente dimostrata la totale innocuità dei profumi e soprattutto dell’essenza di bergamotto; e venne altresì provato dalla comunità internazionale dei dermatologi che in tutto il mondo non vi era mai stato un solo caso di cancro della pelle imputato all’uso di profumi e di essenza di bergamotto, presente in quasi tutte le composizioni. La prova più inconfutabile fu infine un’inchiesta condotta tra i “Mastri Spiritari”, le persone più a contatto in assoluto con la lavorazione dei frutti. Risultarono tutti prodigiosamente longevi, con una vita media nettamente superiore a quella dei cittadini dello stesso territorio.

Fu molto faticoso risalire la china. Le piantagioni avevano toccato il minimo storico. Diversi coltivatori, esasperati dagli effetti devastanti dell’attacco sui prezzi, avevano tagliato le piante. Altri avevano ceduto alla cementificazione dell’area costiera. Fortunatamente, uno zoccolo duro di irriducibili, convinti assertori della bontà del Bergamotto di Reggio Calabria e certi che la bufera sarebbe stata superata e che il vento sarebbe cambiato, aveva comunque resistito.     

Superata la bufera, è partita la riscossa, ancora in corso. Il Principe degli Agrumi dagli Anni Novanta del ‘900 ha vissuto un eccezionale risveglio ancora in corso grazie ad una serie di iniziative culturali, politiche e imprenditoriali. Il Centro Studi Bosio ha inserito uno Speciale Bergamotto nell’ambito del Premio Mondiale di Poesia Nosside; ha organizzato col Consorzio del Bergamotto una gara gastronomica (“Bergamotto Day Prize”) che in sole sei Edizioni ha raggiunto l’obiettivo di diffondere l’uso del Principe nell’artigianato alimentare reggino;  ha condotto dal 1998 – assieme all’AICS e a Riva Destra e col supporto del Consorzio del Bergamotto, dell’Amministrazione Provinciale, della Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria e della trasmissione di RAI Uno “Radio a colori” di Oliviero Beha – la campagna per il riconoscimento del Marchio DOP “Bergamotto di Reggio Calabria-Olio Essenziale” che la Comunità Europea ha concesso il 16 marzo 2001 (Reg. CE n. 509/01, GUCE L. 76 del 16/03/01). Nel Disciplinare sono indicati come Area di produzione Reggio e altri 44 Comuni da Scilla a Monasterace.

 Nello stesso periodo il deputato di AN Fortunato Aloi è stato il capofila della Legge varata dal Parlamento italiano il 25 febbraio del 2000, n. 39, contenente  “Norme per la tutela del bergamotto e dei suoi derivati". E il 22 luglio 2002 il Consiglio Regionale della Calabria ha approvato la Legge n. 41 sul Bergamotto di cui è stato Relatore il Consigliere Regionale del PDCI Michelangelo Tripodi.

Il Bosio ha inoltre raccolto 20.000 firme per “Reggio Calabria Città del Bergamotto”, dicitura adottata dall’APT, Aziende e associazioni, Case Editrici e periodici e migliaia di cittadini. La Provincia ha deciso di denominarsi “Terra del Bergamotto”. Ma il Comune ha ignorato l’iniziativa.

Le eccezionali qualità terapeutiche e farmacologiche del Principe degli Agrumi sono state esaltate dal Congresso Scientifico Mondiale organizzato dal Consorzio del Bergamotto nel dicembre ’98, con gli Atti pubblicati dall’Amministrazione Provinciale. Il succo ha confermato la capacità di abbassare il tasso di colesterolo nel sangue, mentre nei più rinomati laboratori di ricerca di cinque continenti le componenti del Bergamotto hanno già dato risultati con produzioni di farmaci contro la sclerosi multipla e la psoriasi. Sono altresì al centro di ricerche scientifiche per la preparazione di farmaci contro grandi malattie, in primo luogo il cancro e l’AIDS e di recente anche il diabete.

Il Consorzio del Bergamotto ha pensato infine di recuperare un ritardo secolare presentando in quegli stessi anni il progetto per l’istituzione dell’, collegato a quello prestigioso di Versailles e inserito tra le opere del Decreto Reggio. L’Istituto, che nascerebbe con trecento anni di ritardo, dovrebbe sorgere all’Arenella di S. Gregorio ristrutturando alcuni dei fabbricati dell’azienda inglese che produceva acido citrico ed essenza di Bergamotto, preparerebbe  Maestri Profumieri. E si avvarrebbe dell’apporto come docenti dei Maestri Profumieri francesi dell’Istituto di Profumeria di Versailles, con indubbi riflessi di immagine e di prestigio, economici, occupazionali e sociali.

L’Istituto di Profumeria, progettato dal Dott. Francesco Crispo, potrebbe altresì avviare una sfida: la realizzazione del ciclo produttivo completo. I reggini sono stati abili creatori ed esportatori delle bozze di pipa che poi sono divenute le pipe inglesi o milanesi; esperti filatori della seta grezza che poi diveniva seta rifinita in Inghilterra; e per tre secoli coltivatori del bergamotto ed estrattori ed esportatori di essenza di bergamotto verso la Francia e altri Paesi. Hanno in tal modo consentito la realizzazione di ingenti profitti di qualche azienda esportatrice di essenza ma soprattutto di aziende profumiere e di altri settori in Italia e nel mondo. Mentre per loro si sono riservati le maggiori fatiche, guadagni minimi e l’anonimato. Non sono state mai create le condizioni per pensare a qualcosa di più e osare di completare, con le loro capacità e competenze, il ciclo produttivo. Lo stesso progetto dell’Istituto è stato più volte inserito nel Decreto Reggio, finanziato e rifinanziato, ma sempre rinviato e mai neanche avviato.

Questa potrebbe essere la nuova frontiera da aprire, cominciando dal prodotto unico ed esclusivo e producendo laddove si posseggono il giacimento naturale primario e solide basi di esperienza e professionalità. Come hanno fatto i francesi di Grasse. Città della Provenza di 50.000 abitanti, che è partita dallo sfruttamento delle essenze presenti nel proprio territorio e acquisendo poi le altre per diventare la Città internazionale dei Profumi, con una miriade di Aziende profumiere e dell’indotto (vetrerie e packaging), che danno lavoro e prosperità, producendo sia autonomamente che per le grandi firme. Grasse importa dal’700 la maggior parte dell’essenza di Bergamotto di Reggio Calabria, che viene poi trasformata in una fonte di profitti che neanche vagamente si possono confrontare con i guadagni dei produttori reggini. In questa ottica l’Istituto Superiore di Profumeria costituirebbe la base su cui fondare l’idea ambiziosa di un Distretto come volano di sviluppo e della creazione di nuove prospettive di lavoro di Reggio Metropolitana.

Connesso all’idea dell’Istituto è un altro obiettivo: la sensibilizzazione degli Enti Locali e del Governo nazionale sull’importanza planetaria del Bergamotto di Reggio Calabria, sul fatto che da secoli è un tesoro del “Made in Italy” nel mondo, sebbene mai riconosciuto come tale. Occorre valorizzarlo per quanto merita, per quanto ha rappresentato e rappresenta, staccandolo dagli elenchi dei “prodotti tipici”, che per questo bene identitario è minimizzante. E nel contempo occorre promuovere e difendere la denominazione corretta di “Bergamotto di Reggio Calabria”.

Per agire in questa duplice direzione nel 2019 è nato il “Comitato per il Bergamotto di Reggio Calabria”. I Soci Fondatori sono il sottoscritto, Filippo Cogliandro, Angelica Cuzzola, Davide De Stefano, Angelo Musolino, Maria Pinneri e Santo Strati. Gli aderenti sono in costante crescita.

In sostanza, facendo tesoro di più di trecento anni di esperienze positive e delle occasioni mancate, è un diritto e un dovere osare di più e trasformare gli sprazzi di luce dell’ultimo trentennio in un futuro luminoso per una terra che – anche se il mondo non lo sa - da secoli profuma, cura e delizia i palati del mondo grazie al Bergamotto di Reggio Calabria.

 

* Pasquale Amato, nato a Reggio Calabria il 22 aprile 1944, è Storico e Docente Universitario di Storia dell’Europa Contemporanea nell’Università per Stranieri di Reggio Calabria e già Professore di Storia Contemporanea e di Storia dei partiti e movimenti politici nell'Ateneo di Messina. E' Presidente del “Comitato per il Bergamotto di Reggio Calabria” ed autore del saggio “Storia del Bergamotto di Reggio Calabria”, Città del Sole Edizioni - RC.

 

 


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